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«Sei un maschio; non è da maschi piangere.»
Quante volte ho sentito questa frase da bambino? Probabilmente da lì è nato tutto: passi le medie e le superiori nella malsana convinzione di dover essere «un duro», di dover rispettare criteri di genere (essere alto, bello, forte), guardando serie TV e grossi blockbuster nei quali il protagonista, puntualmente affascinante e muscoloso, non piange, non prova emozioni, non soffre per la perdita dei suoi cari o a causa di un amore mancato. Non piange mai.
È da poco che ho terminato la lettura della Chanson de Roland, definibile un blockbuster della letteratura romanza, e ho notato che i cavalieri, lì, piangono sempre: piange Carlo Magno alla vista del nipote Orlando, steso sotto un albero, morto dopo una lunga battaglia. Carlo dorme e lo affliggono gli incubi; il giorno dopo, a cavallo, rigonfio e nascosto nella sua barba bianca, piange senza rivolgere parola a nessuno. Piange Orlando alla morte di Oliver, trattenendo le lacrime durante il suo travaglio e piangendo, ancora una volta, con la spada in pugno, provando a difendere il cadavere dell’amico.
Quante volte ho pianto, rosso dalla rabbia o dalla tristezza, il giorno dopo aver sofferto? Quante volte ho pianto la mattina, quando nessuno poteva raggiungermi e tirarmi fuori dal mio buio, sperando che il risveglio cancellasse il passato e le scelte? Quante altre volte mi sono vergognato delle mie guance bagnate, dei miei occhi rossi, delle mani tremanti, discutendo con quella voce che nel mio cuore urlava: «I veri uomini non piangono!»…
«Ma come? Lo fanno anche i cavalieri…».
Mi sono nascosto nell’angolo della mia macchina, piangendo davanti alla mia fidanzata, e ho pensato di averla persa: l’arma che ha inferto la ferita è stato il giudizio, il giudizio di questa società che non vuole vedere un uomo piangere. Non so bene per quale strano motivo. Non conosco le cause che hanno trasformato la frase «i maschi non piangono» in una sorta di norma sociale, né i motivi che hanno reso il piangere un segno di debolezza. Io, al contrario, credo che piangere davanti a qualcuno e, soprattutto, avere il coraggio di piangere con se stessi siano tra i momenti in cui a un uomo è richiesto il massimo coraggio, in questa società più che mai.
Una società che è mutata nel corso dei secoli, ma che, un tempo, vedeva nel re che piangeva un grande esempio di valore cavalleresco: un gesto per onorare i defunti, per disperarsi in amore, per combattere la brutalità del nemico con la lacrima — un’azione che non solo smuove il cuore di Dio, ma anche quello di tutti i soldati. Infatti, una volta visto re Carlo sul cavallo singhiozzare dal dolore, la Chanson ci regala un altro grande momento di riflessione: un pianto comune. Un pianto che arrivava dall’esercito dei Franchi: dalle armature scheggiate dai colpi delle lame nemiche, che brillavano grazie ai raggi del sole che attraversavano gli elmi, e che risuonava per le vie di Roncisvalle, accumunando quei centomila guerrieri nel momento di dolore.
Quanto è difficile oggi, per noi uomini, aprirci con un amico, piangere di fronte a lui e ammettere che non ce la stiamo facendo, che il carico è troppo grosso, che di quella persona ci importava realmente, e che non è il momento di liquidare tutto con il maschilismo… ancora una volta… con una battuta fuori posto, con un atteggiamento irreale, con l’idea di dover essere il protagonista di quel film che non piange mai. Gli antichi cavalieri non sarebbero stati d’accordo… infatti, per loro, era il nemico a non piangere mai, ed era proprio in questa mancanza di emotività che risiedeva la sua più grande fragilità: il suo tallone d’Achille.
La Chanson de Roland ancora oggi può parlare a una società profondamente diversa da quella in cui è stata concepita, può dimenarsi e urlarci che Durendala, la mitica spada di Orlando, è stata spesso macchiata di sangue e, a volte, senza paura di ammetterlo, di lacrime.
Elementi di filologia romanza
Ho raccolto un po’ di informazioni sull’evoluzione della parola piangere dal latino classico, passando per il latino volgare, fino ad arrivare alla forma attestata nella Chanson de Roland in francese antico.
Questa parte dell’articolo prova a ricostruire in modo dettagliato i passaggi fonetici, morfologici e metrici che portano dalla forma latina plōrāre (“piangere”) alle attestazioni del francese antico (plurt, plurent) fino alla forma moderna pleurer. Ogni processo è descritto e confrontato con esempi tratti dalle lingue romanze sorelle.
In latino: plōrō, plōrās, plōrat, plōrāmus, plōrātis, plōrant.
Sappiamo che la vocale ō lunga indica quantità fonemica (ovvero, nel latino classico, la lunghezza della vocale ha rilevanza per il significato della parola). Questa O lunga viene poi neutralizzata nelle lingue romanze → plorare[ˈplo.ra.re] (tardo latino).
Proprio perdendo la quantità vocalica, questa porzione della parola diventa soggetta, come se fosse in qualche modo “indebolita”, ad alcuni cambiamenti. Nei dialetti galloromanzi, le vocali aperte /o/ in certe posizioni (spesso in sillaba tonica chiusa) tendono a dittongarsi (ovvero la vocale viene affiancata da un’altra vocale) → si passa quindi da O a OU: plorare → plourer.
Si ha anche un’apocope, ovvero la caduta della vocale finale atona (-A): si passa da plorare a plourer.
Nel testo della Chanson de Roland si osservano inoltre alcune contrazioni metriche, tese a mantenere la scansione del verso in decasillabi: plorare → plourer → plurt.
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