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Quella che leggerete è una storia veloce. Parla di questo: tutte le storie felici si somigliano tra loro; ogni storia infelice è infelice a modo suo. Io sono Riccardo. Ho ventidue anni, sto con una persona, sono felice. E ho la cittadinanza. Ho conosciuto Ashiyā – il mio migliore amico – in una mattina fresca d’autunno. Ero in terza superiore, e in quel periodo, ricordo, non sentivo mai il bisogno di piangere. La prima volta che lo vidi stava scattando una foto col cellulare a una montagna di trucioli abbandonati. Rideva, con quello sguardo furbo che ancora oggi lo distingue, e le spalle un po’ curve — la postura tipica di chi sa che sta infrangendo una regola, ma se ne frega con stile. Cercava di non farsi notare dal professor Guicciardini, che l’avrebbe sicuramente rimproverato: «Il telefono non si usa a scuola!» avrebbe detto. E io avrei risposto: «Ma a scuola non ci siamo...» Quella foto la mise su Snapchat — lo so perché me lo raccontò tempo dopo: gli ricordava “una montagna di letame”, ma nella didascalia scrisse: “una montagna di pop corn”. A quella foto rispose Sara: «Troppo vero hahaha». Sara si innamorò di Ashiyā molti anni dopo. Poco prima di andarcene, ci siamo guardati: io gli ho sorriso, lui non ha ricambiato. Ci rimasi male. Il professor Guicciardini, che era uno di quei professori che si accorgono quando stai zitto invece che quando parli, mi si avvicinò e disse piano: «È arrivato da poco. La lingua la sa, le persone no. Per ora si muove nel mondo come in una casa d’altri. Prova a parlargli tu, la prossima volta.» Finì così quell’ora di alternanza scuola-lavoro: con uno sguardo non ricambiato, e un professore che aveva fatto davvero il suo mestiere. Uscì il sole, uscii anch’io. Presi l’autobus. A cena, mia madre — sicuramente — mi rimproverò per qualcosa. In quel periodo ero sempre da rimproverare. La seconda volta che lo vidi fu la settimana dopo, nella stessa falegnameria dall’odore di pino fresco e caffè bollente, nella periferia di Padova — là dove l’asfalto cambia pelle ogni due mesi, e il tramonto si impiglia nei cavi dell’alta tensione. Era piena di righelli metallici, pannelli ruvidi, banchi da lavoro neri, seghe dentate e disegni geometrici. Lo vidi armeggiare con l’aspiratore. Mi avvicinai. «Ciao.» Alzò lo sguardo. «Ciao.» Ci guardammo un secondo in più. «Bella la foto dell’altra volta», dissi. Fece una risatina. «Sembrava letame.» Sorridemmo entrambi. E diventammo amici. Quel giorno, mentre aspiravamo i trucioli, parlammo di sport — a entrambi piaceva il calcio. Parlammo anche dei suoi genitori, che — come lui — non avevano la cittadinanza. «Non posso venire in gita con voi per questa ragione», mi disse. Poi parlammo dei miei genitori, che la cittadinanza ce l’hanno dalla nascita. Capisco oggi che siamo uguali finché la legge non decide il contrario. Questa era l’unica differenza tra le nostre famiglie, avere o non avere un foglio di carta, e io non la notai, davvero, per anni. Mi sembrava che la famiglia di Ashiyā fosse identica alla mia. Perché anche a suo padre piaceva il calcio, come al mio. Anche sua madre lo sgridava se giocava troppo alla PlayStation o se andava male a scuola. Parlavano bene l’italiano, lavoravano entrambi. Suo padre lavorava con mio padre, nella fabbrica dei Levov. Facevano bottoni. A scuola, le nostre madri si salutavano e bevevano il caffè assieme. Una sera uscirono e andarono a teatro. Quello stesso anno venni rimandato in tre materie. Ashiyā mi fece ripetere tutto il programma di matematica: eravamo in vacanza nella mia casa al mare, con le cicale che facevano da sottofondo agli integrali. Fu la prima persona, esclusa mia madre, a cui dissi: «Ti voglio bene.» Anche quell’ora di alternanza finì. Ma quella volta, l’autobus lo prendemmo insieme. Sono passati dieci anni da quell'autunno. Io e Ashiyā abbiamo parlato di tutto, scalato montagne, fatto viaggi, condiviso quel tipo di fiducia che non ha bisogno di parole. È quasi un mese che non lo sento. Ai messaggi non risponde. So che Sara partirà per Berlino: ha trovato il lavoro dei suoi sogni. Lui non può seguirla. Non ha ancora la cittadinanza.
Autore
Alessandro Mainolfi