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Questo articolo è un reportage del viaggio organizzativo all’origine di un percorso Erasmus+ promosso da Ad Astra Lubiana, Sport Équilibre e Cooperativa Sociale Ecole, che ho seguito come co-organizzatore ed educatore in Martinica, isola caraibica delle Piccole Antille, dipartimento d’oltremare francese. Ho attraversato l’Atlantico ad agosto per concordare gli aspetti organizzativi e logistici, e ho accompagnato sull’isola un gruppo di otto ragazzi del Liceo Sportivo Attilio Bertolucci a fine ottobre. È il 29 agosto 2024. Scendo dall’aereo, l’aria densa di umidità mi avvolge le membra intorpidite dal viaggio e mi porta al naso profumi dolciastri di frutti tropicali. L'aeroporto porta il nome di Aimé Césaire, pioniere del movimento letterario e politico della Negritudine, fondamentale nella lotta alla decostruzione del pensiero coloniale ed eurocentrico. Christoph è il mio primo contatto umano in Martinica. Guida la navetta che mi porta al noleggio auto di Lamentin, dove il 6 ottobre, dopo il primo coprifuoco di fine settembre, riprenderanno le rivolte legate al carovita. Intanto, a fine agosto, il malcontento aumenta, ma nessuno si aspetta che da lì a un mese sorgeranno barricate, roghi e sommosse lungo le strade di Fort-de-France, e disordini in tutta l’isola. A nord-ovest, sulle acque calme del mar dei Caraibi, non si sospetta nemmeno lontanamente che la tranquilla stazione di polizia di Le Carbet sarà ridotta a un cumulo di cenere e macerie.
Accendo la macchina noleggiata, procedo lentamente, supero il cancello, il muso dell’auto si abbassa sulla strada in discesa e i fari illuminano una sagoma che attraversa lentamente la via, incurante del pericolo. Un granchio grande come una scarpa sfila con le chele alzate verso il cielo, sfoggiando il suo carapace verdastro. Raggiungo il Martinique Hostel, a Le Quartier Désert di Sainte-Luce, alle 21.00. Mi accoglie Dani, una ragazza di 28 anni. Ha studiato legge in Francia, ora gestisce un piccolo ostello con la sua dolcissima Sexy, un incrocio tra un cane nudo messicano e un pitbull. Mi racconta un po’ di sé e della sua famiglia, che ricorda bene quando gli aerei passavano sui campi di banane rilasciando il clordecone, che spesso entrava nebulizzato dentro casa.
Il clordecone è un insetticida organoclorurato, usato estensivamente nelle piantagioni di banane della Martinica e della Guadalupa per circa vent’anni, dal 1972 al 1993, per tenere sotto controllo il charançon (o tonchio, in italiano), uno degli insetti più nocivi per le banane.
Questo pesticida si degrada molto lentamente e, quando penetra nel terreno, vi resta fino a 600-700 anni, contaminando i terreni, le falde acquifere, i mari, i raccolti e gli allevameneti.
Oggi numerosi studi dimostrano che, a causa dei pesticidi, la Martinica registra, a livello mondiale, la più alta incidenza di cancro alla prostata, oltre ad alti tassi di neoplasie, malformazioni congenite, sterilità, parto precoce e malattie postnatali.
Tutte le battaglie legali legate al caso del clordecone sono sfumate nel nulla. A gennaio 2023, la più importante class action contro il governo francese, costituita da associazioni delle vittime e singoli individui, si è conclusa con l’archiviazione del caso.
Il 30 agosto saluto Dani e mi dirigo verso Le Diamant, piccola baia a sud-ovest dell’isola, dove sorgono, da un verde manto erboso affacciato sul mare, imponenti sagome di pietra posizionate in memoria delle vittime di una nave negriera naufragata vicino alla costa.
La Martinica ha giocato un ruolo nevralgico nel periodo della tratta degli schiavi, e la cultura creola è il risultato di una commistione di molteplici culture africane, indiane ed europee. Gli schiavi venivano caricati come merce nelle stive delle navi, e nessuno è mai stato risarcito per le atrocità subite. Oggi, i discendenti delle famiglie che controllavano la tratta degli schiavi sono a capo delle grandi aziende agricole che dominano i terreni dell’isola. Procedo verso nord, dove mi aspetta Tomi, di Ad Astra Lubiana, organizzatore dello scambio europeo. Ormai esperto dell’isola, mi guida lui verso Le Carbet, dove passeremo i prossimi tre giorni progettando gli ultimi aspetti logistici con Erika e Silvan di Sport Équilibre, associazione sportiva partner dello scambio. Io ho affittato una piccola stanza in riva al mare, in un luogo meraviglioso chiamato Le Petit Trésor, gestito da un gruppo di ragazzi che portano avanti le tradizioni legate all’agricoltura biologica a Le Petit Cocotier, un’azienda agricola situata su un terreno sotto Morne Rouge, dove porteremo gli studenti a ottobre. La loro missione è legata alla lotta contro le monocolture e all’autodeterminazione di un sistema di produzione che tutela cultura, tradizioni e ambiente.
Il 31 agosto andiamo a visitare una piccola realtà agricola di Le Carbet, che coltiva i ripidi pendii bagnati a valle dal fiume Le Piton. Anik e Miguel ci raccontano la storia dell’associazione Lasotè, nata dalla volontà dei cittadini di Le Carbet di mantenere vive le tradizioni agricole nate dopo l’abolizione della schiavitù. Nel 1848, gli schiavi liberati, in estrema povertà, non potevano disporre di nuove tecnologie agricole e si organizzarono in una società di mutuo aiuto per la coltivazione della terra (Lasotè significa “terra” in creolo).
Spesso, per alleviare le fatiche, i contadini zappavano a ritmo di strumenti musicali tradizionali, come tamburi ricavati con materiali naturali e una tradizionale conchiglia gigante (lambi), che suona come una tromba. Convinti del valore educativo dell’esperienza, ci accordiamo per proporre questa attività agli studenti a ottobre.
Scambio significa saper donare e saper ricevere, e spesso ricevere è molto difficile a causa della nostra cultura di provenienza. Significa viaggiare con occhi da bambini, per accogliere e comprendere le culture che visitiamo, senza giudizi, mettendoci in ascolto e in osservazione di un paradigma nuovo che non ci appartiene. È fondamentale per entrare in empatia con le persone locali. Lo scambio avviene con le persone e nasce dal dialogo, che non deve essere dialettico, ma guidato da una sana curiosità non giudicante, dall’esperienza e dai progetti condivisi. L’indomani partiamo alle 6:30 diretti verso Morne Calebasse, dove parte il sentiero per il Mont Pelée, vulcano che l’8 maggio 1902 rase al suolo la vecchia capitale dell’isola, Saint-Pierre, causando più di 29.000 morti.
Ora il vulcano è un Parco Naturale, sormontato, sui pendii più alti, da una fitta e bassa vegetazione che, procedendo verso nord, si tramuta in una rigogliosa giungla quasi impenetrabile, e infine si tuffa a La Grand’Rivière, dove il mar dei Caraibi e l’oceano Atlantico si incontrano.
Il sentiero è riconoscibile agli occhi esperti di Tomi, anche se, trovandoci alla fine del periodo delle piogge, sul versante nord, all’imbocco della giungla, la vegetazione in alcuni tratti è cresciuta, coprendo completamente la traccia.
Il primo di settembre saluto Tomi e procedo verso la costa atlantica. Visito La Trinité e mi dirigo verso nord, a Basse-Pointe conosco Flavia, agronoma argentina che gestisce un vivaio e una piantagione di canna da zucchero. Da pochi anni sta sperimentando un nuovo metodo di riproduzione della canna, basato sulla divisione del rizoma invece che sulla moltiplicazione per talea.
Mi spiega il sistema trasparente con cui paga i suoi dipendenti: ogni lavoratore scrive su una lavagna comune il numero di piantine travasate e le ore lavorate, e in base a questo viene retribuito. Il costo della vita sull’isola impone ai cittadini di avere spesso due occupazioni; per cui, nonostante molti dei suoi dipendenti guadagnino tra i 1.500 e i 1.800 euro al mese, finito il turno nel vivaio iniziano un altro lavoro. Procedo verso nord e arrivo a La Grand’Rivière, ultimo avamposto umano ai confini dell’isola, tra il mare e la vegetazione tropicale.
Ragiono molto su quanto siano evidenti, su quest’isola, le dicotomie dell’Europa. Un territorio tropicale, culla di una ricca e rara biodiversità, distrutta per garantire a noi europei prodotti superflui, conservando il retaggio schiavista nel sistema socioeconomico e mantenendo economie di sfruttamento del territorio e dalla popolazione. Nei giorni successivi percorro la costa sud-orientale, cosparsa di sargassi: un problema ecologico per gli abitanti della costa, che possono subire i gas sprigionati dalla fermentazione di queste alghe, trasportate dall’oceano in grande quantità sulle rive. Visito la distilleria A1710, una delle poche distillerie indipendenti dal marchio dell’isola, che distilla anche durante la stagione delle piogge. Arsen ha 24 anni, ha lavorato come sommelier in Francia e ora vive in Martinica con la sua compagna. Si muove con agilità tra i tubi di rame, si arrampica sui serbatoi di fermentazione per esaminarne il processo e tiene la temperatura degli alambicchi sotto controllo.
Mi scorge con la macchina fotografica e, anche se non ho comprato il biglietto per la visita, decide di spiegarmi l’azienda, dal campo alla bottiglia di rum. La canna da zucchero appartiene alla famiglia delle graminacee e ha un periodo di maturazione che varia dai 6 ai 12 mesi; poi viene raccolta tagliandola alla base, che ricrescerà di nuovo. Attirato dal rumore di un estrattore, mi dirigo sul retro dell’azienda, dove tre dipendenti pressano le canne da zucchero, ricavando il succo grezzo che viene poi filtrato, pompato nei serbatoi, distillato due volte, messo in botti di legno (rum ambrato, barricato) o di ceramica (rum agricole bianco), poi imbottigliato, venduto, stappato e bevuto.
L’Unione Europea, nel 2021, ha stanziato gran parte dei fondi del programma POSEI per supportare le monoculture di banana e canna da zucchero, contribuendo alla crisi economica e ambientale dell’isola. La stessa Europa che stanzia migliaia di euro per farci scoprire queste contraddizioni con lo scambio europeo di ottobre. Di fronte a queste sfide, emergono piccole e virtuose iniziative ecologiche che promuovono la biodiversità, unendo tradizioni ancestrali e pratiche moderne. Questo modello, ispirato alle conoscenze dei nativi americani e degli schiavi fuggitivi, affonda le sue radici nell’ichali, antenato del giardino creolo, e si sta sviluppando oggi in aziende agricole come Petit Cocotier. La passione e la grinta che si scorge negli occhi di queste persone restituiscono pienamente la consapevolezza della lotta che emerge ruggente dalla loro prospettiva di uomini oppressi, figli di un ambiente colonizzato sfruttato e contaminato dall’Europa.
Eroi, mai riconosciuti, che combattono ogni giorno per salvaguardare la vita. Dovremmo riconoscere almeno il nostro potere economico come presa di posizione politica, oltre che come scelta etica e umana, di persone che comprendono la realtà e si organizzano, mettendo in pratica scelte significative, capaci di cambiare le aberranti dinamiche globali fondate sulle leggi della necrofila economia capitalista. Leggi capaci di distruggere interi ecosistemi, nella più assoluta impunità, in nome del denaro e del profitto, pietra capostipite dell’arco di volta su cui sorgono i moderni stati europei, padri fondatori di diritti umani mai riconosciuti, perché mai protetti da un popolo troppo spesso sordo, muto, cieco e privo di ogni memoria storica. Un popolo reso ancora più egoista dalla globalizzazione e dalla privatizzazione dei mercati, pronto a soddisfare ogni piccolo bisogno superfluo di tanti bambini viziati, incapaci di rinunciare all’effimero.
L’autocritica è fondamentale come educatore, e alla fine di ogni percorso mi interrogo sempre su cosa ha funzionato, come sono cambiati i ragazzi, se e cosa hanno imparato, se hanno stretto legami e se hanno potuto esplorare nuovi orizzonti, dentro e fuori di sé. L’esperienza di ottobre con i ragazzi è fantastica, piena di valore e di stimoli educativi. Incontriamo persone delle realtà locali che lottano con entusiasmo, ci immergiamo nella biodiversità caraibica, impariamo a comunicare con i gesti, svincolandoci dalle barriere linguistiche.
L’ultimo giorno, però, come coronamento di un’epica impresa, sorge una proposta totalmente fuori luogo da Tomi, capofila del progetto, acerrima ricompensa dopo un viaggio virtuoso. "Who wants to go to McDonald’s?" La risposta sorge ovvia all’unisono, come un tic compulsivo di un meccanismo rotto che ripete sempre le stesse risposte agli stessi stimoli. Il gruppo entra al McDonald’s; da educatore esprimo il mio dissenso e offro l’opportunità di seguirmi al bar di fianco. Capisco presto che attendo invano, e mi dirigo da solo a consumare il mio pasto, rifiutandomi di sostenere l’ennesima multinazionale madre della globalizzazione consumista.
Questo è quello che Paulo Freire definisce incarnare profondamente i nostri stessi oppressori, al punto da diventare noi stessi i nostri oppressori, aderendo incondizionatamente a un sistema marcio ideato da loro. Finisco di scrivere questo articolo il 9 maggio, giornata dell’Europa, e il giorno in cui venne ammazzato Peppino Impastato, *che oggi, di fronte a questo mondo globalizzato, potrebbe scrivere che ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi, prima di abituarci alle bigotte consuetudini di economie necrofile, prima di non accorgerci più di niente.
Torno dalla Martinica domenica 3 novembre. Voglio illudermi che quella scelta sia scaturita da una dimenticanza e dall’euforia della fine di un'esperienza meravigliosa. Come Teseo, che ricolmo di gioia si scorda di issare le vele bianche, come concordato con il padre Egeo, in segno di vittoria. Ma quella è stata una scelta troppo contraddittoria rispetto alla storia che abbiamo conosciuto, alla realtà di un moderno sistema di oppressione. È stata una proposta assurda e fuori luogo arrivata da un adulto, educatore, e accolta dai ragazzi. È questa nostra incoscienza che dobbiamo ricercare, riconoscere e combattere ogni giorno. Questa è resistenza oggi: saper riconoscere le abitudini insostenibili derivate dalla nostra cultura, saper esercitare il proprio potere economico, viaggiare lentamente, valorizzare le realtà e le persone che mostrano un’alternativa possibile al sistema. Un sistema a cui troppo facilmente aderiamo, tenendo alte le **vele nere** di una cultura eurocentrica, capitalista, consumista e neo-coloniale, che ci tiene ancorati al consumo compulsivo e frenetico di cose superflue e inutili, di cui ignoriamo la provenienza e l’immenso impatto politico, culturale e ambientale. Foto scattate da Lorenzo Menozzi con reflex Canon Eos 7D Mark II ottiche 28-70 f2.8 e 70-200 f2.8
Autore
Lorenzo Menozzi