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Eccola: seduta al suo tavolone, quello che ospita cene e pranzi di famiglia da più di vent’anni, appoggiato sullo stesso tappeto dove da bambina mi andavo a rifugiare per giocare indisturbata. Lei, come un’antica regina, siede sempre alla sinistra del capotavola, circondata da un fogliame di documenti, prescrizioni mediche, riviste botaniche, la Gazzetta e qualche libro: il suo regno. “Ho una cosa per te” mi dice mia nonna, allungandomi un vecchio quaderno apparso quasi per magia. Con una grafia impeccabile, degna di una maestra, leggo una serie di poesie, riscritte a mano, di autori che sia lei, sia i suoi figli, sia i suoi nipoti, hanno studiato a scuola.
Era già l’ora che volge il disio ai navicanti e ‘ntenerisce il core lo dì c’han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore punge, se ode squilla di lontano che paia il giorno pianger che si more;
L’ottavo Canto del Purgatorio di Dante, due terzine che le sono piaciute talmente tanto da volerle trascrivere e leggermele. Quel senso di nostalgia quando si è lontani da casa è un sentimento comune, universale. So benissimo quando ho provato io quel sentimento ma mi rendo conto di non sapere quando lo ha provato lei. Mia nonna è nata nel 1938. Più di 80 anni di vita, intrecciati con la storia che inesorabilmente avanza. Mi si configura davanti un pozzo infinito di testimonianza, di ricordi di un tempo che è ormai transitato, di cui solo i suoi occhi hanno una fotografia indelebile. Ogni famiglia ha una storia che la lega ai luoghi e agli avvenimenti storici. Le terre d’origine spesso si mescolano e creano incontri da cui scaturisce poi una memoria e una tradizione propria della famiglia stessa, unica e allo stesso tempo universale. La storia di mia nonna è anche la mia. Lei da Brescia si trasferisce a Parma nel 1960, a soli ventidue anni, decide di creare una nuova vita, una nuova famiglia e quindi una nuova storia a Parma. “Non ho avuto difficoltà, perché avevo tanto entusiasmo e mi sentivo a casa: avevo accanto mio marito, rifarei tutto da capo.” Penso a me stessa a come mi sarei potuta sentire a lasciare i miei amici, la mia casa in cui sono cresciuta, i miei angoli preferiti della città. Quanti giovani lasciano la propria terra in cerca di un futuro diverso? L’essere umano esplora per natura, si spinge oltre i confini conosciuti, ma allo stesso tempo si lega indissolubilmente alle persone. La propria casa si costruisce con le persone a cui tieni, la nostalgia che senti quando sei lontano da casa non è tanto della tua camera, ma delle persone che ti aspettano a casa. Quella stessa nostalgia che anche Dante conosceva bene. Mentre lei mi legge con passione le altre poesie del suo prezioso quaderno mi fermo ad ammirare la cura che mette nel suo quotidiano: la calligrafia scritta con eleganza, la calma e l’ordine che scandisce le sue giornate. Giornate in cui non avviene nessun contatto con un computer o con uno smartphone. Un’esistenza vissuta senza Instagram, senza Whatsapp. Io e la mia generazione siamo cresciuti in un tempo velocizzato, in cui le innovazioni tecnologiche sono all’ordine del giorno: un modello di telefono nuovo ogni anno, una Playstation nuova ogni anno, un elettrodomestico sempre più avanzato. Il nuovo per noi è diventato quotidiano. Non mi riesco ad immaginare la mia vita senza questi strumenti, senza un rapporto simbiotico con la tecnologia in tutte le sue forme. I nati nel 1938 avevano principalmente la radio: la casa si riempiva spesso delle canzoni di Nilla Pizzi, Consolini, Tajoli e Claudio Villa. La famiglia di mia nonna, e tante come quella, non aveva né frigorifero, né telefono, né televisore. “Se volevo vedere Sanremo dovevo andare al Bar più vicino”. “La prima volta che ho visto un frigorifero è stato a casa di una cugina di mio padre, la quale proveniva dall’ “America” dove si era trasferita con il marito, un militare USA. Morto lui, lei è tornata in Italia con due figli, un bellissimo frigorifero e la pensione di vedova di reduce di guerra.” Solo quando ha iniziato a lavorare ha conosciuto la macchina da scrivere e il telefono, circa nel 1956-57. Lavatrice, frigorifero, televisore, una volta sposata e con una retribuzione fissa, sono arrivati successivamente nella sua casa e hanno portato la grande rivoluzione tecnologica del boom economico: la comodità.
Ma questa innovazione tecnologica, lo sviluppo di un Paese, ci si domanda quanto vada di pari passo con il progresso giuridico e culturale. Soltanto nel 1946 è stato concesso il voto alle donne. Per mia nonna andare a votare è sempre stato un appuntamento irrinunciabile. Bisogna informarsi, chiedere pareri, discuterne insieme, poi ci si reca alle urne. “L’ho sempre ritenuto un dovere oltre che un diritto, perché se non esprimi il tuo parere con un voto, il candidato da te scelto non saprà esattamente quanto lui vale tra i suoi votanti.” La prima volta per lei è stata per le elezioni comunali del 6 novembre 1960. Al tempo si acquisiva il diritto di voto con i 21 anni. Anche io sono cresciuta con l’idea che la partecipazione politica fosse un dovere-diritto, ma vedo nei miei valori una prospettiva molto più individualistica: io vado a votare perché faccio un servizio a me e alla mia comunità, voto chi per me è il candidat* migliore. Mentre per chi mi ha preceduto la prospettiva è altruistica: il mio voto è utile a chi si candida come metro di qualità del proprio operato, un confronto, una competizione costruttiva che spinge a migliorarsi. Oggi ci siamo dimenticati dell’onore di andare a votare, lo si fa quasi come una perdita di tempo di cui vogliamo liberarci il prima possibile. È la disillusione che ci accompagna al voto e non la consapevolezza della dignità e dell’importanza di questo. Noi diamo per scontato questo diritto acquisito, mentre nel mondo sono pochi gli Stati in cui c’è la possibilità di elezioni democratiche. Anche per questa ragione dobbiamo recuperare il senso più altruistico della partecipazione politica.
Ai telegiornali sentiamo parlare di guerra: subito l’associamo a violenza, morte, distruzione. Ma nessuno di noi giovani parmigiani ha vissuto la Guerra, nemmeno i nostri genitori. Cosa significa per chi con i propri occhi ha visto il cielo illuminato dai bengala? Per chi ha ancora nelle proprie orecchie il suono delle sirene di avvertimento di incursione aerea e delle Ave Marie sgranando il Rosario? Per chi ha visto mitragliare la propria scuola elementare? Nessuno di noi sa quanti sofferenze e sacrifici hanno dovuto affrontare queste persone: la fila che da fare davanti alla latteria e alla drogheria con la tessera che razionava gli alimenti, la miseria delle famiglie numerose che non avevano neanche lo zucchero. “Per sopperire a questa mancanza di cibo, mio padre decise di andare a S. Croce di Polesine dove vivevano i nonni materni, partendo da Monterotondo (n.d.r. quelle colline che ora sono chiamate Franciacorta, provincia d Brescia). Prese la bicicletta, mi mise sul sellino montato sulla canna e partimmo. A un certo punto udimmo un aereo e subito mio padre si buttò nel fossato lì accanto con me e la bicicletta. Ci salvammo e proseguimmo il viaggio fino al fiume Po, lo attraversammo in barca. Papà mi portò dalla nonna dove rimasi, mentre lui tornò a casa con farina, formaggio e salumi legati sotto la sella e la canna della bicicletta.” Oggi la guerra sembra solo un gioco crudele di potere, lo scontro tra potenze militari per dimostrare la propria superiorità o per guadagnarsi una striscia di terra. Al contrario non vediamo che le ricadute maggiori sono sui civili, sulle persone come noi, gli anziani e i ragazzi, senza differenze. Qualcuno pensa sia un punto di partenza, un’epurazione di ciò che la precede per dare spazio a qualcosa di nuovo e sicuramente migliore, ma la guerra non è altro che una ferita inguaribile che divide e separa, è una forza distruttrice, non costruttiva. Allora nonna se dopo tutto quello che è successo nulla è cambiato, perché continuiamo a studiare? Che senso ha sfogliare i libri e divorare manuali se la storia si ripete? Che dono può essere la lettura di una poesia? La letteratura, la cultura, più semplicemente le storie, se condivise, discusse, tramandate, ti aiutano a cambiare prospettiva, a ridimensionare la tua lente con cui osservi e interpreti il tuo mondo. Nell’incertezza, nella paura, a volte ci si perde “nella selva oscura” della vita, con questa storia, con tutte le storie, si può recuperare la via. Quando si è giovani ancora non si è in grado di sapere il finale della propria storia, ma possiamo sapere dove stiamo andando: proprio come Dante, che aveva un obiettivo, un orizzonte, sempre ricordando e facendo memoria del proprio passato.
Autore
Eleonora Urbanetto