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“Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì oh giovani col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione.” Piero Calamandrei
Ogni giorno percorriamo tratti di strada che ci sembrano sempre uguali, quelli che ci portano al lavoro, a scuola, a casa: in questo modo una città diventa parte di noi, quando ci ricordiamo a memoria ogni curva e piano piano perdiamo la lente della curiosità nel nostro sguardo.
Quando quella lente rimane, si sente un bisogno di stabilità e fermezza tanto da voler conservare per sempre quello che si vede. Per qualcuno questo significa appassionarsi alla fotografia.
Nella giornata del 25 aprile si celebra una festa nazionale, la Liberazione dal regime nazi-fascista, conquista della lotta resistenziale partigiana. Quest’anno è un anniversario importante: 80 anni di libertà. La Resistenza, come diceva Piero Calamandrei, è stata combattuta sulle montagne da giovani partigiani, questi stessi sono ricordati ora nelle nostre strade anche da monumenti funerari: i cippi partigiani. I cippi si trovano in zone della provincia, vicino ai campi, o lungo le statali, dietro ai guardrail, o ancora, in stradine di ghiaia non più utilizzate, inghiottite dall’urbanizzazione dei paesi che evolve negli anni.
Ho pensato a questo mentre osservavo gli scatti della mostra Venti5aprile di Ettore Moni.
Ettore Moni è fotografo nato a Parma nel 1967, che ha girato il mondo, spaziando dalla fotografia nel mondo della moda, dell’architettura, del paesaggio, fino ad arrivare al corpo e al nudo, con diverse pubblicazioni su una delle più autorevoli riviste a livello mondiale: “The British Journal of Photography”.
Cosa ti ha avvicinato alla fotografia e qual è stato il tuo percorso?
«Tutto nasce quando avevo dodici anni con la morte di mio padre: mi lasciò una piccola macchina fotografica e da quel momento ero quello del gruppo di amici che si portava dietro sempre la macchina fotografica. Ai tempi non era consueto come oggi fare fotografie: ho sempre lavorato, anche tutt’ora, a pellicola, e questa scelta porta con sé una serie di costi e di tempistiche che danno maggiore peso e importanza a ogni scatto. La mia formazione è da autodidatta, da ragazzo aiutavo in uno studio fotografico e lì ho appreso le basi tecniche, le mie prime esposizioni le ho fatte a Parma prodotte dal centro culturale Edison, una importante “factory” degli anni ’80. Da lì poi ho lavorato come fotografo di moda soprattutto a Milano e a New York collaborando con le più importanti riviste del settore, poi ho lasciato quel mondo e mi sono dedicato al paesaggio e all’architettura, ora sto pubblicando su riviste svedesi e del Nord Europa. Nel 2013 ho allestito la mostra “Venti5aprile”.»
Com’è stato costruire questo progetto fotografico?
«Ho scoperto che quasi nessuno sapeva dove fossero collocati questi cippi, è stato un lavoro di ricerca come “Alla ricerca della lanterna perduta” (la risata nasconde dell’amaro n.d.r.) perché in alcuni casi erano già visibili, altrimenti ho chiesto a chi abitasse e frequentasse abitualmente la zona, mentre su internet, dopo un po’ di ricerca, avevo trovato un sito con una mappatura di tutti i cippi di Parma e provincia. Ho collaborato con il Comune di Parma per allestire la mostra sulle plance pubblicitarie nelle zone strategiche della città. L’idea era quella di creare una mostra a cielo aperto, non vincolata ad uno spazio chiuso in modo che tutti potessero vedere le foto dei cippi. Sono stati individuate 14 zone di grande passaggio tra fermate dell’autobus e plance (per esempio sul lungo Parma o su Viale Mentana). Gli scatti sono stati realizzati con un banco ottico 4x5 a lastre e le foto sono state poi elaborate al linguaggio pubblicitario dal noto dal grafico Roberto Pia. È stato qualcosa di innovativo per la città perché le persone spesso si fermavano e rimanevano a guardare magari interrogandosi e riflettendo sulla lotta resistenziale. Questa mostra non è una vetrina, né una fonte di guadagno bensì è stata una sfida: quella di preservare la memoria antifascista.»
Parma oggi ha bisogno di fotografia?
«Parma dal mio punto di vista non è viva artisticamente, ancora meno per quanto riguarda la fotografia. Le varie istituzioni cittadine non vanno oltre all’organizzazione di mostre con dei grandi fotografi mainstream, sempre i soliti nomi del passato. Manca una cultura fotografica, un’attenzione ai nuovi fotografi. Mancano gli spazi per la fotografia, specialmente per i giovani. A Parma c’è l’abitudine di fare progetti sempre partendo dall’alto, con qualche politico o imprenditore, le iniziative dal basso fanno molta fatica a emergere.
Oggi con i social ci sono enormi possibilità di conoscere e mettersi in contatto con fotografi da tutto il mondo; l’altro lato della medaglia è che questi potenti mezzi offrono l’opportunità a tutti di fare fotografia, anche a chi non ha la cultura fotografica. Cultura che non si traduce solamente nel sapere la storia della fotografia ma significa avere “l’occhio” e conoscere cosa è stato fatto prima e soprattutto nel presente. La fotografia, per quanto sia esercitata da tempo, è ancora un’arte considerata moderna, a scuola non si studia.»
Cosa può fare un giovane per avvicinarsi al mondo della fotografia?
«Andare via da Parma. Se un giovane vuole approfondire e conoscere, in Italia ci sono festival di notevole rilevanza: Festival della Fotografia Europea a Reggio Emilia, Torino Foto Festival, il MAST di Bologna e tanti altri. Però tutte queste iniziative sono distaccate, ognuno nel proprio, spesso su iniziativa di enti privati, non c’è una cultura per tutti promossa dallo Stato come ad esempio a Parigi.
Mentre se hai la passione, quella ti porta dove vuoi. Dipende cosa vuoi fare con la fotografia: esiste quella intesa come “lavoro” per cui il mio strumento manuale è una macchina fotografica e io vengo pagato per fare foto. Poi esiste la fotografia intesa come “arte”: nasce come espressione di se stessi, in questo caso devi seguire i tuoi sentimenti, i tuoi interessi, il tuo essere, poi sta a te che scatti, farli diventare qualcosa di bello da vedere.»
Top 3 fotografi preferiti?
«A livello storico mi piace molto Tina Modotti perché è stata una rivoluzionaria italiana. Nata a Udine, negli anni ‘20 è andata in Messico e ha partecipato alla rivoluzione messicana. Poi Richard Avedon fotografo americano di moda, scattava tutto con un banco ottico 8x10 e uno dei maestri della fotografia, ha realizzato il libro “In The American West” che raccoglie scatti di persone normali che incontrava girando per strada negli Stati Uniti. Infine, Irving Penn sempre fotografo di moda ma che riusciva, come anche Avedon, a indagare l’umanità delle persone.»
Dal 2013 al 2025 questa mostra può avere ancora rilevanza?
«Quello che fa più male è conoscere la storia. Più sei ignorante, più in questa società stai bene. Se ti informi e conosci il passato come fai a non indignarti, a non arrabbiarti con quello che sta succedendo ora? Di fronte all’attuale governo che emana un decreto sicurezza che colpisce nel profondo la democrazia, aumentando la pena per chi manifesta ed esprime le sue idee, come si fa a non pensare a quei ragazzi di sedici, diciotto, vent’anni, caduti giovanissimi per liberare l’Italia? Questo a me dispiace soprattutto per i giovani di adesso. Conoscere e informarsi significa non essere controllati, essere liberi e indipendenti. Se non sono i giovani a muoversi e a fare lotta comune, chi lo fa? I vecchi non hanno più interesse a lungo termine, la loro parte l’hanno già fatta.»
Cosa significa fare Resistenza oggi? Come si fa a parlarne a chi vive in Italia, ad esempio, come seconda generazione di persone che sono nate in un atro paese?
«Io credo che esistano tanti tipi di Resistenza: per i migranti già la loro vita è una resistenza; pensare di andare via dal loro paese, dalla loro famiglia, compiere il Viaggio, trovare un lavoro, ottenere i documenti e imparare una lingua, sono tutte situazioni che formano queste persone in maniera molto concreta. Spiegare la nostra Resistenza del ‘45 diventa difficile, non tanto perché non capiscano, ma perché è una storia che non appartiene a loro. Forse invece si potrebbero trovare dei valori comuni anche di fronte alla deriva autoritaria mondiale attuale. Fare Resistenza oggi significa anche informarsi: andare oltre al “sentito dire”, leggere, fare quel poco che possono fare i cittadini per esercitare i propri diritti, confrontare fonti diverse. Ed infine fare Resistenza significa appassionarsi all’arte: una passione non può essere controllata, ti porta ad approfondire, ogni forma di espressione di sé, anche la fotografia stessa, può essere resistenza.»
Per concludere hai qualche nuovo progetto in atto?
«Ora sto lavorando a “Embodied simulation”, un nuovo progetto in cui sto recuperando la dimensione del corpo, in particolare il nudo, che vedo come forma d’arte unica. Tantissime persone, soprattutto giovani, mi contattano sui social per farsi fotografare: la novità più recente sono alcune drag queen, prima senza trucco e poi con il trucco per vedere la trasformazione da un Essere all’altro. Pubblico i miei lavori su Instagram @ettoremoni e prossimamente farò un’esposizione a Bologna con il mio ultimo lavoro alla Galleria Leòn, dal 6 giugno.»
Autore
Eleonora Urbanetto