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Non capita spesso. A volte entri in una sala del cinema vicino a casa tua con certi pensieri, certi valori, certi obiettivi e, due ore dopo, esci, scendendo i familiari scalini, senza più certezze, con tante domande pronte a crearti un nuovo punto di vista, completamente diverso.
Questo è successo dopo la visione di “Bird” di Andrea Arnold.
Sono entrata umana e sono uscita con gli occhi di un uccello. Con lo sguardo ho catturato immagini e riflessioni di cui non mi ero mai accorta: mi sono appollaiata su un edificio e dall’alto ho osservato la mia società.
Nella periferia del Kent una ragazzina di 12 anni, Bailey, sta cercando di capire chi è. Mette a fuoco la sua vita attraverso la lente del suo telefono. Registra video di tutto quello che vede: riprende i gabbiani che volano nel cielo dal cavalcavia sotto casa; il rospo appena comprato dal suo giovanissimo padre (interpretato da Barry Keoghan) per vendere il suo muco allucinogeno; le farfalle nella cameretta spoglia, giusto un sacco a pelo, un lenzuolo per un minimo di privacy e una grande finestra; il nuovo taglio di capelli del suo fratellastro che sfoggia subito a uno dei blitz che la sua “gang” di quartiere periodicamente compie, come dei giustizieri, nei confronti di chi ha commesso violenza contro qualcuno di loro.
Bailey è circondata dalla violenza: suo padre vuole sposarsi con una donna appena conosciuta, ha già in mente una grande festa e i vestiti per le damigelle; ma la droga non gli fa guadagnare granché, Bailey non ne vuole sapere di questo matrimonio, urla, piange e inizia a correre lontano. La madre è intrappolata in casa con un compagno violento, non sa come liberare sé stessa e i suoi figli. Bailey continua a correre e dalla stanchezza si addormenta in un campo.
I miei occhi ora sono quelli di un cavallo: l’alba sta sorgendo, il profumo dell’erba tagliata invade le mie grandi narici e mi accorgo di una giovane ragazza, stesa davanti a me, circondata da spighe. Mi avvicino nitrendo e con il crine le accarezzo il viso, svegliandola: tra me e il suo sorriso si frappone un occhio metallico che mi riprende da vicino. Lei si alza e si trova davanti un ragazzo strampalato, dall’aspetto socievole e di buonumore che dice di chiamarsi “Bird”, le chiede indicazioni, le rivela che è felice di questo nuovo giorno e che sta cercando “la sua gente”. Bailey è diffidente, ma decide di aiutarlo e li vedo camminare nella stessa direzione.
Piano piano i due inizieranno a stringere un rapporto di amicizia e fiducia, unico barlume di salvezza in una quotidianità che imbruttisce gli spazi e gli esseri umani. Inconsapevolmente si ritrovano sempre in posti sopraelevati, come a voler scappare da una realtà crudele e difficile da risolvere. La casa non è più il luogo sicuro dove tornare per riprendere fiato, ma è il luogo da cui scappare il prima possibile, un peso che tieni sulle spalle ovunque tu sia.
Bailey impara da Bird la speranza, la fiducia, l’autostima in sé stessa. Bird (interpretato da Franz Rogowsky) ritrova il coraggio, la forza dirompente per credere ancora nel cambiamento.
Forse abbiamo tutti bisogno di un Bird nella nostra vita: qualcuno che ti stritola il braccio per farti sentire che sei ancora vivo e puoi ancora reagire, qualcuno che ci ricorda il nostro legame con la bellezza della natura, qualcuno che ci porta a osservare la nostra vita dall’alto, lucidamente e con calma e sensibilità, qualcuno che ci dice “Don’t you worry”.
E forse abbiamo tutti bisogno di vedere “Bird”: uno spaccato del disagio giovanile, di cui tanto si parla nei media tradizionali e di cui poco si sa sul serio. Un delicato racconto della confusione adolescenziale, dell'arrogante voglia di cambiare il mondo e trovare amore nelle situazioni più complesse.
Autore
Eleonora Urbanetto