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Comprendere la geografia dei territori occupati palestinesi è tutt’altro che semplice.
Visti da una mappa, appaiono come disconnessi, isolati l’uno dall’altro, frammenti sospesi che non si incontrano mai. Masafer Yatta, una regione collinare e arida a sud della città di Al Khalil, si trova nell’Area C della Cisgiordania, una classificazione introdotta dagli Accordi di Oslo II del 1995. Questi accordi, firmati dall'OLP (organizzazione per la liberazione della Palestina) e dal governo israeliano, suddivisero
la Cisgiordania in tre zone amministrative, lasciando oltre il 60% del territorio – l’Area C – sotto il pieno controllo militare e civile israeliano. Per le comunità palestinesi di questa regione, ciò ha significato restrizioni sempre più severe, demolizioni e minacce di sgombero, in un processo di occupazione che non si è mai arrestato. Laframmentazione territoriale ha da sempre rappresentato uno degli obiettivi dell’occupazione israeliana, con conseguente espropriazione dei territori palestinesi.
La logica politica ed economica dietro l’istituzione di una zona militare chiusa, la cosiddetta “Firing Zone 918” ha radici più antiche. A partire dagli anni ’80, l'allora ministro dell'Agricoltura Ariel Sharon sostenne la necessità di costruire un’area destinata alle esercitazioni militari, delimitando circa 30.000 dunam (3.000 ettari) come zona militare chiusa. Una decisione che, sulla carta, rispondeva a esigenze di addestramento, ma che nella realtà segnò l’inizio di un lungo percorso di violazioni e privazioni per le comunità palestinesi che vivevano da generazioni su quelle terre. Parallelamente, le colonie israeliane hanno continuato a espandersi a discapito dei villaggi palestinesi, in aperta violazione del diritto internazionale. Una crescita che fin dall'inizio è stata parte di una strategia più ampia: mentre gli insediamenti si consolidavano con il supporto dello Stato israeliano, le comunità palestinesi venivano progressivamente soffocate, private di infrastrutture e costrette a vivere in condizioni sempre più precarie.
Nel 1999 la situazione precipitò. L'esercito israeliano avviò un'evacuazione di massa, costringendo circa 700 palestinesi a spostarsi verso la città di Yatta, suscitando un’attenzione mediatica senza precedenti. Tuttavia, nei primi mesi del 2000, la Corte Suprema israeliana emise un'ingiunzione temporanea, consentendo ai palestinesi di tornare nei loro villaggi in attesa di una decisione definitiva sulla legalità della loro presenza. Il processo durò 22 anni, durante i quali l’esercito continuò a condurre esercitazioni militari e a demolire case e a sottoporre le comunità locali a pressioni costanti. Nel 2022, l'Alta Corte israeliana respinse i ricorsi dei residenti palestinesi e confermò il diritto dell'esercito di evacuare l'area. La sentenza, definitiva e non impugnabile, rese tutte le abitazioni soggette a demolizione e i residenti a rischio sgombero. Così, per le famiglie palestinesi, significò vedere cancellato, anche a livello giuridico, il legame con la propria terra. Per i residenti di Masafer Yatta, la lotta per rimanere sulla propria terra è sempre stata un atto quotidiano di resistenza. Ogni ritorno, ogni tentativo di ricostruire ciò che è stato distrutto, rappresenta una sfida aperta all’occupazione. Gli attacchi dei coloni e le continue minacce di sgombero non hanno spezzato il senso di appartenenza che lega queste comunità alle loro radici. È in questo contesto che si inserisce la quotidianità dei villaggi palestinesi di Masafer Yatta. In alcuni di essi, le famiglie vivono ancora in grotte naturali, adattate nel tempo per resistere al clima arido della regione. Tra pastorizia e agricoltura, il legame con la terra è non solo fonte di sostentamento, ma anche patrimonio culturale tramandato da generazioni. La dichiarazione dell'area come zona militare ha reso ogni gesto quotidiano incerto, ogni costruzione vulnerabile e ogni speranza sempre più lontana. Dopo il 7 ottobre, le pressioni militari e coloniali si sono intensificate: la regione haassistito a un’escalation di violenza da parte dei coloni che vivono negli insediamenti illegali limitrofi. Tra i villaggi più isolati, e maggiormente esposti, c’è Tuba.
Pochi giorni dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco (pattuito tra Hamas e Israele) del 19 gennaio, un gruppo di coloni armati, provenienti da uno degli insediamenti più grandi, Ma’on, ha attaccato il villaggio. Hanno incendiato un’auto, aggredito con bastoni i bambini, distrutto scorte alimentari e dato fuoco al mangime per gli animali. Dopo aver devastato la casa di una famiglia, rovesciando sul pavimento scorte e beni di prima necessità, sono rientrati nella colonia senza lasciare tracce. Non è stato un caso isolato. La violenza dei coloni contro i palestinesi è quotidiana, sistematica, e senza conseguenze legali. Rappresenta una strategia di intimidazione e controllo che mira a costringere i palestinesi ad abbandonare le proprie case. “Dopo il cessate il fuoco, tutta la violenza è legata al fatto che vogliono continuare a fare quello che hanno sempre fatto, attacchi continui contro di noi” mi ha raccontato un ragazzo del vicino villaggio di A-Tuwani. A-Tuwani è uno dei principali villaggi di Masafer Yatta, con una popolazione di circa 400 abitanti. Come altre comunità della regione, A-Tuwani possiede un piano urbanistico riconosciuto dal governo israeliano che, seppur garantendo una protezioneparziale dagli ordini di demolizione, non esclude il rischio di demolizione per alcune costruzioni. Nel corso degli anni, grazie ad alcune battaglie portate avanti dall’amministrazione locale, il villaggio è diventato un simbolo di resistenza civile. Inoltre, la presenza stabile di organizzazioni internazionali e gruppi di solidarietà gioca un ruolo importante nel documentare le violazioni e supportare i residenti nella loro lotta quotidiana contro l’occupazione. In mezzo all’assenza di diritti e protezioni, la loro presenza è una forma concreta di resistenza. Ogni notte può essere quella di un nuovo attacco, ogni alba quella di una nuova demolizione. “Anche solo la nostra presenza fisica fa sì che loro si possano sentire un po' di più al sicuro” mi ha detto un’attivista dell’organizzazione “operazione colomba”. Qui, la scuola del villaggio rappresenta non solo un’istituzione educativa, ma un simbolo di speranza e continuità. Frequentata anche dai bambini di Tuba e di altri villaggi vicini, costituisce uno spazio di normalità in una condizione segnata dall’occupazione. Tra insediamenti illegali e costanti restrizioni, giocare diventa un atto di resistenza, un gesto che riafferma il diritto di vivere, crescere e sognare.
Nonostante la sentenza dell’Alta Corte israeliana del 2022 che ha confermato la designazione di Masafer Yatta come zona militare, rendendo impossibili nuovi appelli legali, la popolazione locale continua a resistere. “Per il futuro nessuno lo sa, stiamovivendo il periodo peggiore della nostra vita e non so se c'è qualcosa di peggio di come è adesso. Ma comunque cerchiamo di affidarci alla speranza e al benessere continuando a lottare per questa strada per la libertà del nostro popolo”. Sofferenza, lotta e speranza fanno da cornice del passato e presente di questi luoghi, lasciando al suo interno uno spazio vuoto e imprevedibile per il futuro. Ogni casa ricostruita, ogni bambino che va a scuola, ogni pastore che continua a portare il gregge nei pascoli rappresenta un atto di resistenza contro l’ingiustizia dell’occupazione.