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“Volevo essere un duro, che non gli importa del futuro.”
C’è qualcosa di disarmante in questo verso di Lucio Corsi, qualcosa che colpisce proprio perché non cerca di colpire. Nessun urlo, nessuna posa. Solo una confessione leggera, svestita, che però pesa come un macigno se hai vent’anni, o qualcosa in più, e ti sei stancato di fingere.
Nel mondo in cui siamo cresciuti, la fragilità è un errore di sistema. Siamo stati educati a essere prestanti, veloci, risoluti. A non sbagliare, a non esitare, a non mostrare mai le crepe. Ma poi arriva una canzone come Volevo essere un duro, e all’improvviso ti rendi conto che quelle crepe non solo ci sono, ma parlano. E raccontano qualcosa di profondamente nostro.
Lucio Corsi non canta un’epica del fallimento, ma una poetica del disarmo. Quel suo personaggio “che doveva essere forte” e invece si ritrova umano, inadeguato, fragile, è lo specchio fedele di una generazione che non si riconosce più nei modelli che ha ereditato. Una generazione cresciuta dentro l’idea che “a vent’anni puoi tutto”, e che oggi si trova schiacciata dal peso di quel tutto.
Perché il tutto è diventato troppo.
È maggio, e fa già caldo. Troppo caldo per chi ha vent’anni e si sente stanco. I fiori sbocciano, le giornate si allungano, le città si riempiono di luce e movimento. Ma sotto quella superficie, pulsa qualcosa di più opaco: un senso di affanno, di ritardo, di inadeguatezza. Un malessere sottile, stratificato, che ci portiamo dentro come una seconda pelle. Fioriscono gli alberi, ma anche le aspettative, le scadenze, i paragoni, le crisi. Ogni primavera ci ricorda ciò che non siamo diventati.
Siamo cresciuti dentro un’idea di giovinezza che non ci appartiene più. Venduta come un tempo di possibilità infinite, come una corsa verso il successo, la scoperta, l’amore, la libertà. E noi abbiamo corso, siamo sempre in movimento a rincorrere qualcosa che sembra irraggiungibile. Abbiamo corso ma poi abbiamo trovato porte chiuse, ansie da prestazione, procrastinazione, mancanza di autostima, voci che ci dicono che siamo in ritardo, che c’è sempre qualcuno che fa le cose meglio di noi, che fa più di noi, che si impegna più di noi, che corre più veloce di noi. Ci hanno detto “a vent’anni puoi tutto”. Ma quel tutto oggi ha un costo altissimo: affitti insostenibili, concorsi irraggiungibili, lavori instabili, relazioni liquide, concorrenze continue.
«La giovinezza sarebbe un tempo meraviglioso, se solo arrivasse un po’ più tardi nella vita»
- Charlie Chaplin
In questo contesto, una canzone come quella di Corsi non è solo un pezzo musicale. È il rifiuto gentile di una narrazione tossica. È il permesso, finalmente, di non essere duri. Di essere stanchi, lenti, smarriti. Di non avere ancora una risposta.
Non siamo solo la generazione stanca. Siamo anche quella che si interroga, che cerca un modo diverso di stare al mondo. C’è chi va in terapia, chi scrive, chi canta, chi lascia tutto e riparte. C’è chi resta, e prova a resistere con quello che ha. Siamo una giovinezza che brucia, non di energia spensierata, ma di intensità, di lucidità, di domande radicali. Non ci basta sopravvivere. Vogliamo capire. Sentire. Esistere davvero.
Lucio Corsi, con la sua estetica fuori moda e la voce che sembra arrivare da un’altra epoca, ci ha raccontati meglio di tanti slogan generazionali. Non perché abbia parlato di noi, ma come noi. Senza pretese di durezza, senza bisogno di armature. Solo con la forza paradossale della vulnerabilità.
Forse è proprio questo, oggi, essere giovani: imparare a stare dentro le proprie crepe senza vergogna. Accettare di germogliare piano, con fatica, fuori dai riflettori. Smettere di rincorrere un’identità perfetta e iniziare a costruirne una vera. Con alleanze fragili ma sincere, con storie condivise, con canzoni che non salvano ma aprono spiragli.
La giovinezza è un maggio che brucia.
E forse, proprio perché brucia, ha il potere di illuminare.
Autore
Aurora Malpeli