Consultavo ancora una volta quello splendido commento di Enrico Fenzi al De Vulgari Eloquentia di Dante, quando – era il 28 luglio – dovetti lasciare la biblioteca Paolotti di Parma: si era totalmente allagata.
Le porte si chiusero alle mie spalle. Entrato nel dolce giardino del chiostro di Lettere, alzai lo sguardo. Dall’alba il cielo era stato brutto, plumbeo e livido – poi, diluviatore tonante – ma ora assumeva un aspetto più chiaro. Somigliava a un uomo che, stremato dalla rabbia prima covata e poi sfogata a lungo, si abbandona finalmente alla stanchezza: rilassa gli occhi e si illumina, ritrova pace nel cuore. Tornava vuoto e azzurro; era stupendo.
Attraversai rapidamente il chiostro. Uscito dal polo, girai a sinistra. Dopo qualche passo attraversai la strada, lasciandomi alle spalle la facciata di quella che fu la Chiesa dei Minimi, poi ospedale per decreto di Maria Luigia, oggi biblioteca umanistica... oggi allagata.
Per asciugare le scarpe, zuppe d’acqua, mi rifugiai in un caffè che, in quanto a spazio, è poco più di un antro: un bugigattolo dove gli studenti bevono sempre birra calda, la mattina mangiano crostata ai frutti di bosco, il mercoledì sera giocano a scacchi fino a tardi. Lì sanno stare assieme, conoscono il significato della responsabilità; cantano, ridono, pianificano la Rivoluzione che non faranno mai e discutono delle questioni universitarie.
Seduto, nascosi le scarpe e i piedi sotto il tavolo. Ordinai un tè caldo e, guardando dal vetro il riflesso anamorfico delle auto nelle pozzanghere, mi tornò alla mente una conversazione con il mio amico Antonio, il Filosofo.
Gli dissi: «Saluti».
Lui: «Su cosa rifletti?».
Io: «Che tra le aule di Lettere Moderne, nemmeno un super-stroboscopio spirituale rileverebbe, nello studente medio, un lampo di interesse per gran parte dei corsi che è costretto a seguire...
Corsi dimenticati insieme ai post-it giallo-rosa, tra le pagine dell’ultimissimo manuale di pedagogia: ieri in stampa, oggi in vendita a sessanta euro – obbligatorio acquistarlo – domani già rivenduto su WhatsApp a un quarto del prezzo. Sempre più di quanto valga».
Allora lui si preoccupò enormemente: «Obbligatorio comprare il nuovo volume a metà dell'anno?».
«Sì. Quello che fino a dicembre andava bene ora non va più: obbligatorio prendere quello nuovo, sebbene identico».
«Forse questa è una cosa scorretta..».
«Secondo me la è.»
Ma forse non è colpa di tutti...
Rimase in silenzio, poi mi chiese: «Perché fate pedagogia e non la letteratura?».
Risi: «Perché è più semplice.
E poi, di vera letteratura, quasi non ce n’è più.
Questa è la fine del corso?.
«Forse sì, forse no. Ma sicuramente questo è il demone che ha portato, sui volti dei miei colleghi, quell’ambascia apatica e insopportabile».
La stessa che immaginavo negli occhi tristi di Giovanni Drogo, immerso nel cannocchiale, senza fiato, mentre attendeva invano che il vuoto deserto davanti a lui si riempisse di una storia passata. Una storia in cui il legame tra Corso, Studente e Università era tenuto vivo dal perseguire un fine comune: formare i nuovi letterati italiani, preparati a custodire la lingua, la sua letteratura e la sua storia; a curare le generazioni future e, con esse, il destino di questa Repubblica di orfani.
Lo studente di Lettere Moderne, battagliero, figlio di fuoco antico, cuore educato, vuole la letteratura moderna, risorgimentale, antica e contemporanea. La brama tutta.
Vuole studiare la lingua. Vuole poter scrivere. Vuole lavorare sui testi e con le parole.
Ha potuto fare seriamente cinema, teatro, didattica. Ma non ha potuto fare seriamente Pasolini, Del Giudice, Pellico, Cavalcanti, Quasimodo, Montale, Nievo, Guittone, Tommaseo, Capuana, Tozzi, Vittorini, Tasso, Buzzati, De Luca, Boccaccio, Baricco…
E senza questa letteratura, ciò che resta rischia di essere solo un’aula vuota ed umida, allagata come quella biblioteca: un luogo pieno di libri, ma vuoto da ciò che li rende vivi.