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Esiste una storia inquietante sulla nascita del primo abitante della città di Atene. Una di quelle storie che chiamiamo “mito”. Il dio Efesto vuole possedere la bella Atena, così la insegue fino a braccarla. Lei non soccombe, ma il dio sparge il proprio seme; Atena si pulisce con un panno di lana e lo getta a terra, o, per meglio dire, lo getta verso Gea (la Terra), che rimarrà gravida e darà alla luce un uomo, Erittonio: il primo uomo ateniese, letteralmente partorito dal suolo stesso su cui, un giorno, sorgerà la città.
Il racconto, per quanto assurdo, è la base su cui il popolo ateniese costruisce la propria identità, nonché la percezione che ha di se stesso; cioè quella di un popolo “purosangue” ed interamente costituito da autoctoni. Ne deriva un atteggiamento di chiusura rispetto alle influenze esterne, considerate una minaccia per la propria integrità identitaria.
A Roma la storia è ben diversa. Il mito fa risalire le sue origini ad un eroe straniero: Enea. Non un italico, ma un troiano (oggi, un “turco”) e per di più un fuggiasco. Il giovane Enea è costretto a scappare dalla sua città, Troia, perché le fiamme dei greci la stanno divorando. Si mette in viaggio, attraversa il Mediterraneo, tocca la Sicilia, l’Africa e finalmente approda sulle coste del Lazio. Qui sposa Lavinia, una principessa italica; dalla loro unione discenderà una stirpe destinata a generare, molti anni dopo, i due gemelli Romolo e Remo, fondatori della città che governerà tutto il mondo conosciuto: Roma.
Capiamo bene che il popolo romano non aveva alcun interesse a mostrarsi agli altri popoli come figlio “puro” della sua terra, né tantomeno come primo ed unico abitante di essa. A maggior ragione, se consideriamo che il mito prosegue con un episodio di accoglienza verso altri stranieri. Romolo e Remo si trovano a dover popolare di uomini la loro nuova città, così aprono un asylum (“asilo”), un tempio in cui accogliere tutti e offrire una vita migliore, “senza consegnare lo schiavo al padrone, i debitori ai creditori né gli assassini ai magistrati”. Quindi tutti i perseguitati dei popoli vicini accorrono al rifugio e ricevono protezione, in quanto neo-cittadini. Il prossimo passo è fissare un centro della città. Come? Ancora una volta attraverso un’azione collettiva. Tutti i primi abitanti sono chiamati a gettare una zolla di terra dei rispettivi luoghi di provenienza all'interno di una fossa. Poi mescolano il tutto in un’amalgama e ottengono il nuovo suolo di appartenenza: uno ma molteplice, a cui danno il nome di mundus. Se ad Atene era stata la terra a generare il suo primo uomo, a Roma sono uomini diversi a creare una loro unica terra. La cultura romana ci terrà sempre a ribadire questo aspetto della sua identità: l’Urbe ha fin dalle origini una predisposizione ad essere una società aperta e multietnica. Oggi diremmo un melting pot, che sfrutta la diversità a proprio vantaggio.
I due miti ci offrono un curioso gioco di prospettiva e punti di vista. Per gli uni la mescolanza è inquinamento del proprio sé, per gli altri è costruzione del proprio sé. Quasi una condizione di esistenza: se vogliamo esistere, lo possiamo fare solo nella fusione di Noi e Loro. “Se vogliamo che la città sia grande, apriamola”, devono aver pensato i due gemelli.
E’ proprio questa logica dell’ “accoglienza attiva” che dovrebbe guidare qualsiasi discorso moderno circa la gestione dei migranti, soprattutto in Italia, oggi importante punto d’arrivo. Aprire il Paese a chi cerca asilo, certo, ma andando oltre il semplice “ricevere” qualcuno: renderlo protagonista attivo nella costruzione di un nuovo scenario culturale, politico e sociale.
Sono anni che l’intero sistema di accoglienza italiano (gestito dai Comuni in collaborazione con associazioni e cooperative sociali) lavora in questa direzione; ma, nonostante si sia dimostrato un approccio vincente, continua a subire da parte del governo tagli ai fondi e limitazioni di vario tipo. Come il decreto sicurezza varato da Matteo Salvini nel 2018, che ha stabilito, tra le altre cose, che il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) venisse ridotto e limitato ai soli migranti che già possiedono una protezione internazionale riconosciuta. Questo significa aver escluso moltissimi soggetti vulnerabili dalla possibilità di integrarsi nella comunità ospitante. I progetti SPRAR, infatti, prevedevano l’accoglienza all'interno di strutture “a misura d’uomo”, quindi piccole strutture inserite nel tessuto urbano e sparse sul territorio; onde evitare eccessive concentrazioni di migranti in grandi centri isolati dalle città (simili a capannoni). In più, il sistema offriva una gamma di servizi finalizzati all’autonomia e all’emancipazione degli accolti, attraverso corsi di lingua italiana, supporto nelle questioni legali, corsi di formazione professionale e orientamento al lavoro.
Ecco, il decreto di Salvini portò alla chiusura di molti di questi centri SPRAR, rimpiazzati in seguito dai Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), che si limitano ad un’accoglienza di base ed emergenziale; spesso criticati per la loro inefficienza e le condizioni abitative inadeguate. Si è regrediti: invece che sviluppare e migliorare un meccanismo virtuoso ed efficiente, è stato boicottato e ostacolato.
La domanda è perchè? Perché, a livello di opinione pubblica, non siamo ancora unanimamente convinti di dover investire sull’accoglienza? Io credo che provenga da una strana ansia che ci impedisce di pianificare e ragionare sul lungo periodo. Di organizzare un piano d’azione strutturato.
La narrazione ormai consolidata circa l’immigrazione che riguarda il nostro Paese vuole l’Italia nel pieno di una “emergenza migranti”. L’immagine di un’Italia vittima delle incessanti “invasioni” straniere viene fatta veicolare dai media e impiegata in modo strategico e demagogico da più di un politico. Esagerare i numeri di arrivi, associare i migranti a un aumento della criminalità e presentarli come una minaccia per la nostra identità culturale contribuiscono a creare un senso di urgenza e la percezione di star arrivando a livelli insostenibili.
Ma la realtà è un’altra. Innanzitutto, volendo parlare di numeri, i dati ci dicono che Germania, Spagna e Francia superano di gran lunga l’Italia per il numero di migranti accolti nel 2023; e che grande parte di chi sbarca in Italia non la considera la propria destinazione finale, ma una tappa intermedia per raggiungere i familiari che vivono in Stati europei più a nord (una delle motivazioni per cui si trattengono per anni in Italia sono le lunghe attese per le pratiche di regolarizzazione).
Ma soprattutto, l’immigrazione è un fenomeno complesso, che muove da motivazioni strutturali (guerre, persecuzioni, povertà, crisi climatica): non è una “malattia” temporanea. Va gestita, non eliminata. Tentare di eliminarla non fa che ritardare (da anni) l’elaborazione di soluzioni politico-sociali che intervengano efficacemente a livello sistemico, con sguardo lungimirante.
Il punto di svolta sta proprio nel distinguere la “sfida percepita”, cioè quella che pensiamo di dover affrontare, dalla “sfida reale”.
La retorica dell’emergenza ci ha convinti di dover trovare soluzioni rapide ed immediate all’immigrazione. In altre parole, ci ha convinto di doverla combattere, bloccare. Ora, l’irrealizzabilità di un tale progetto ci porta ad accettare delle “scorciatoie”, che se non risolvono l’immigrazione, almeno la tengono lontana dai nostri occhi. Simili soluzioni tappabuchi però non possono che rivelarsi vaghe, temporanee, e letali per chi si mette in viaggio, sollevando questioni etiche e legali. Tornando ai giorni del mandato di Salvini come Ministro dell’Interno (2018/2019), sappiamo che fu adottata una politica di chiusura dei porti italiani alle navi delle ONG impegnate nel soccorso dei migranti nel Mediterraneo. Secondo i dati, la politica di Salvini ridusse temporaneamente gli sbarchi, ma aumentò il numero di morti in mare (2.270 nel 2018 e 1.283 nel 2019), attirando non poche critiche sul piano umanitario e legale da parte dell’ONU. Ricordiamo infatti che l’Italia (come tutti gli Stati costieri) è obbligata, sulla base di normative sia internazionali che nazionali, ad offrire assistenza a chiunque sia in pericolo in mare, indipendentemente dalla nazionalità o status legale.
Si è provato a non far arrivare i migranti, ma anche a non farli partire. Nel 2017 l’Italia ha stretto con la Libia un accordo per il controllo dei flussi migratori. Lo scopo era (ed è) quello di bloccare chi si mette in mare dalle coste libiche verso l’Italia, o di riportarlo indietro nel caso riesca a partire. Ancora una volta l’Italia ha registrato un numero inferiore di sbarchi. Ma a che prezzo? I migranti che vengono intercettati in mare e riportati in Libia con la forza sono detenuti in condizioni disumane: Amnesty International ha documentato testimonianze di torture, stupri, lavoro forzato ed estorsioni (denaro in cambio della liberazione). Tali accordi sono stati ribaditi e rafforzati dalla Presidente Giorgia Meloni nel gennaio 2023.
Il quadro della situazione è cupo. Ma a volte è sufficiente un cambio di prospettiva: riconoscere le migrazioni come una necessità storica e smetterla di combattere un nemico invisibile. L’integrazione è possibile: certo non è automatica, richiede strategia, investimenti, ed uno sforzo collettivo; ma solo allora potremo finalmente iniziare a parlare di società del futuro. Perché il futuro multiculturale dell’Italia - come dell’Europa - non è un’opzione. E’ la realtà.
Autore
Carlotta Adorni