L’attivista Kirk muore ieri, seduto davanti ad una folla di persone, pronto per il dibattito con affianco la figlia e la moglie, i collaboratori, gli alleati e i nemici politici. Il sole gli batteva proprio in fronte, dentro agli occhi e, piegato sulla sua sedia, sembrava pensieroso, accigliato, assorto. È morto dentro ad una università, l’Utah Valley University, un luogo dove le parole, spesso, hanno vinto sulle armi. Ma ieri no. Un colpo tra la gola e la clavicola, un’esplosione di sangue che macchia la maglietta bianca e poi? E poi il panico, le ambulanze, la folla che si disperde, il governatore dell’Utah che minaccia gli assassini e Donald Trump che parla come un TikToker d’un Kirk che, francamente, non è mai esistito. Ma perché oggi e ora, mentre scrivo queste righe, sono così arrabbiato? Perché so di dover difendere il nome di un uomo del quale non condivido una sola parola? Beh innanzitutto perché, dal momento della sua morte, ho notato una certa festosità nella sinistra americana sui principali social. D’altro canto con Maggione avevamo già inteso questa inclinazione vivace dei democratici americani, ma addirittura lo champagne? In secondo luogo, poi, perché sono assolutamente convinto che con la morte di Kirk muoia anche un po’ di democrazia. Nessun uomo o donna che respiri su questa terra merita di morire per le sue idee, per quanto sbagliate o politicamente scorrette siano. Ho sentito e letto di persone che hanno parlato di questo omicidio come qualcosa di meritato, una semplice conseguenza del comportamento di questo uomo o, peggio ancora, una irreversibile tendenza che lui stesso ha promosso. Parlano come se avesse pregato in ginocchio di farsi sparare a sangue freddo davanti alla figlia. Eppure il diritto a parlare, a esprimere le proprie opinioni, è iscritto nella storia americana con caratteri di fuoco. È il Primo Emendamento della Costituzione a difendere la libertà di parola, di stampa e di assemblea pacifica: “Congress shall make no law… abridging the freedom of speech”. E attraverso il Quattordicesimo Emendamento, questi diritti valgono non solo contro il Congresso federale ma anche nei confronti degli stati. La Corte Suprema, in casi come Brandenburg v. Ohio (1969), ha stabilito che perfino i discorsi più infiammatori restano protetti finché non incitano ad azioni illegali imminenti. E allora come possiamo accettare che un uomo venga giustiziato per le sue parole? Sarebbe facile parlare del “problema delle armi» in America per sviare le considerazioni più ovvie rispetto all’avvenimento: questo è un omicidio politico. Purtroppo non si vuole fare i conti con questa verità perché la mano della persona che ha premuto il grilletto, molto probabilmente, non è quella di un fascista, di un militante di estrema destra, di un omofobo e nemmeno di un militare. Se così fosse stato, a questo punto, metà del mio Instagram sarebbe invaso da storie di cordoglio e disperazione, pubblicate per lo più da gente che si sente di sinistra perché esce in centro con le Birki e ascolta De Andrè. Ma dato che a morire è stato un ragazzo di destra il sole tramonta ancora sulle nostre teste, in piazza nessuno manifesterà e gente vicina a noi, con gli occhi bassi guardando la sua tazzina di caffè, e vergognandosi un poco di cosa pensa, ridendo tra sé e sé dirà «beh in fondo, un po’, se l’è meritato».
Autore
Antonio Mainolfi
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