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Rampicanti che si allungano e si intrecciano intorno ai lampioni della luce, radici che spingono da sotto l’asfalto fino a crepare le strade, erbacce che frantumano i marciapiedi e si insinuano nelle crepe dei palazzi; animali selvatici che oltrepassano i confini dei boschi e altre simili anomalie. Una flora e una fauna incontrollate che tornano a fare da padrone nei luoghi di abitazione umana.
Abbiamo già visto paesaggi del genere, certo non nella realtà, ma in qualche videogioco o in uno di quei film post-apocalittici, tipo Io sono leggenda, in cui si immagina che un’epidemia pericolosissima infetti l’umanità riducendola a zombi ed impedendo qualsiasi tipo di vita civile, tanto meno urbana.
Ma cosa simboleggiano ambientazioni del genere? Sicuramente una cosa: la natura selvaggia in città è considerata un sintomo del collasso della civiltà umana. Quando capita un disastro, la prima cosa a cambiare aspetto sono i paesaggi urbani che cedono all’agguato del regno vegetale. In fondo è la Storia a trasmetterci l’idea che la civilizzazione non sia altro che un processo attraverso il quale il caos naturale viene sostituito dall’ordine umano. Regno cittadino da un lato, regno naturale dall’altro; solo così si costruiscono città vivibili.
Ma il problema che ci riguarda oggi è che le città finiscono comunque per essere luoghi inospitali, a causa del problema opposto, cioè la totale assenza di natura spontanea. Per questo, capire come abitare il mondo diventa più complesso di quanto i nostri antenati avrebbero mai potuto immaginare.
Le città, infatti, sono diventate, soprattutto negli ultimi secoli, forze violentemente distruttive e le prime responsabili di gran parte delle emissioni di gas serra, della produzione di rifiuti e dell’estinzione di specie animali e vegetali; il tutto chiaramente è proporzionale alla loro “attività”: New York, per esempio, consuma più energia e genera più inquinamento di tutta l’Africa subsahariana. Il punto è che di fronte all’emergenza climatica che stiamo vivendo, sono le città stesse ad essere a rischio, perché non sono state progettate per gestire temperature più alte, tempeste imprevedibili e innalzamenti del livello del mare. Dunque, l’attuale situazione di crisi ci impone di ripensare il modello di città tradizionale e di reinventarla in una forma più “sostenibile”.
Ad affrontare la questione è lo storico e ricercatore inglese Ben Wilson, che nel recente 2024 pubblica Giungla urbana, un saggio in cui esplora il rapporto tra natura e città sfidando l’idea che l’urbanizzazione sia sinonimo di distruzione dell’ambiente. L’autore sostiene che il regno naturale possa, ma soprattutto debba, sopravvivere nei centri urbani; e che una delle soluzioni ai nostri problemi sia proprio riammettere la natura all’interno delle città.
Qualcuno potrebbe obiettare: ci sono già spazi riservati alla natura; i parchi, per esempio!
Ora, è interessante sapere che i parchi cittadini, in effetti, nascono proprio dalla necessità dell’uomo di riconnettersi con la natura nell’epoca della rivoluzione industriale, quando le città si riempivano di fabbriche, l’aria si addensava di fumo e il cielo diventava sempre più grigio. Al tempo, se si volevano ritrovare scenari bucolici e paesaggi di natura incontaminata, si doveva per forza uscire dai centri abitati. Per questo si è pensato ai parchi pubblici; chi avrebbe pensato a un parco, se la natura autentica fosse stata ancora sotto casa?
A ben vedere, però, la nascita dei parchi non è stata davvero un ritorno o un reinserimento della natura nelle città, perché qui vi troviamo un tipo di natura addomesticata e semplificata, selezionata nelle sue specie più gradevoli esteticamente e comode da gestire. La spontaneità e il disordine della vita selvatica – vegetale e animale – sono tenuti a freno e di conseguenza il loro valore ecologico è limitato. Wilson chiama quella dei parchi cittadini una "natura civile”, in opposizione a una vera “natura urbana”, cioè che abita gli spazi da cittadina libera.
Un modello da sempre di moda è il cosiddetto “prato all’inglese”: ettari di erba ritagliati in spazi geometrici, attentamente curata, tagliata al millimetro, imbevuta di pesticidi e priva di attività animale al suo interno. Un “deserto verde” che richiede tonnellate annue di fertilizzanti e altrettanto denaro per essere mantenuto libero da erbacce e animali importantissimi, quali farfalle, api, formiche, grilli. Si ottengono così prati verdi, ma non meno artificiali dei palazzi grigi.
L'ambizione originale dietro ai grandi parchi metropolitani, come il Central Park di New York, non fu quella di importare la natura spontanea nella città, ma di creare una natura migliore, artefatta, come un museo all’aria aperta (è curioso che la parola “paradiso”, dal persiano antico, significhi proprio “giardino recintato”). E anche oggi i parchi pubblici non sono che spazi ornamentali e utilizzati esclusivamente per la ricreazione e l’esercizio fisico, rientrando nella categoria dei servizi pubblici, al pari di una stazione o un centro sportivo. Dunque, un accessorio alla città, non una sua parte viva.
Insomma, i giardini pubblici – per come li abbiamo concepiti fino ad ora – possono arrivare ad accontentare la nostra necessità visiva di natura, ma non sono veri alleati nella sfida al cambiamento climatico, all’aumento delle temperature, alla desertificazione e alla perdita di biodiversità. Perché dietro a quell’illusione di abbondanza, nascondono una sterilità insostenibile.
Detto questo, la soluzione non può essere semplicemente chiudere i cancelli dei parchi, gettare il tosaerba e lasciare che la natura faccia tutto il lavoro. Wilson spiega che, innanzitutto, è necessario, come per ogni rivoluzione, un cambio di mentalità. Partiamo da questo: città e natura non sono i due opposti di un sistema binario. Non serve recintare una delle due per farle vivere vicine. Possono esistere una nell’altra: anche la città è un ecosistema, e lo sforzo deve essere quello di renderlo il più ricco e vario possibile. La città esiste in natura, perché la natura può esistere in città.
Dimentichiamoci per un attimo dei parchi: le opportunità di far penetrare la vegetazione in ogni più piccolo recesso sono infinite. Pensiamo alle erbacce. Anche dette piante infestanti, chiamiamo così qualsiasi tipo di pianta che non sia utile alla produzione agricola o faccia percepire come sporco e degradato il luogo in cui cresce, per motivi estetici. Ma da un punto di vista biologico, non esistono le erbacce. È stata la cultura occidentale ad attribuire loro un giudizio morale. Nell’Ottocento qualcuno le definiva addirittura “i vagabondi e i reietti del regno vegetale”, perché, proprio come dei vagabondi, sopravvivevano anche nell’immondizia. Se ci pensiamo però, quelle che noi chiamiamo con disprezzo “erbacce” sono una vegetazione che resiste anche nell’ambiente disturbato e nel terreno povero, acido, secco ed inquinato che abbiamo creato. Si sono adattate a vivere nella scia dei nostri disastri e, in più, svolgono per noi dei “servizi ecologici” essenziali: immagazzinano anidride carbonica, assorbono l’acqua piovana in eccesso, contribuiscono a decontaminare il suolo inquinato. Sarebbe bene quindi mettere da parte il diserbante e lasciarle proliferare. La natura è capace di insinuarsi dovunque nell’ambiente edificato, se solo la lasciamo libera di agire. Giardini privati, parcheggi, cigli delle strade, isole di traffico, tetti degli edifici, cimiteri, greti dei fiumi, orti, letamai. Dobbiamo valorizzare quella biodiversità latente o nascosta negli angoli delle città e delle periferie. Negli ultimi anni, in tutto il mondo, discariche, siti industriali in disuso, aeroporti, basi militari, impianti per il trattamento delle acque, cave e prigioni iniziano ad essere riconvertiti in parchi liberi, allo stato brado. Questi progetti di rinaturalizzazione consentono il ripristino degli ecosistemi autoctoni, e ci aiutano a sviluppare una sensibilità nuova, a riconoscere il diritto di cittadinanza anche a quelle specie fino ad ora considerate ostili o di serie B. In fondo è un atto di espiazione e redenzione dopo anni di abusi.
Abbiamo capito che quando proviamo a immaginarci le città del futuro, più che a tecnologie ingegnose, macchine volanti e grattacieli, dobbiamo pensare a palazzi coperti di muschio, coltivazioni sui tetti degli edifici, prati urbani allo stato brado e boschetti impenetrabili. Sono le città biofile, cioè capaci di incoraggiare ed espandere il più possibile la vita, le uniche ad avere una chance di sopravvivere.
Sarà meglio abituarsi a metropoli incolte, rustiche, selvatiche, e ad aree verdi dall’aria trasandata. Il disordine è fonte di vita, e dove prospera lui, prosperiamo anche noi.
“Dai diamanti non nasce niente…”
Autore
Carlotta Adorni