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Il vestito per natura è vicino a tutte e a tutti, indossato a fior di pelle tutto il giorno, rappresenta e partecipa alla produzione del sé, proprio come la scrittura, il linguaggio o la confessione, sull'abito che stiamo per acquistare o che indossiamo, ognuno di noi, inconsciamente getta la propria sorte.
Tutto ciò che tocca il corpo, fa sbocciare in forma sensibile e ontologica le utopie racchiuse nel corpo stesso. Cambiare abito è un modo di cambiare sé stessi, di reinventarsi. Non è solo "cosa metto", ma "chi sono". Dunque, anche un pezzo di lana avrebbe una sua soggettività, un potenziale psichico che ci fa percepire gli abiti come attori di teatro in cerca di ruoli per poter entrare in scena.
Ma oggi la moda che tradizionalmente intendiamo con i dettami del novecento, non è più moda, perché "tutto va di moda" : ogni abbinamento è lecito, non esistono più regole né separazioni di genere, la moda che oggi parla ai nostri occhi è strettamente legata alla categoria dell'essere.
L'essere si definisce, per usare un linguaggio deleuziano, rizomatico: una struttura fluida, aperta, un sistema in cui ogni punto può collegarsi a qualsiasi altro, senza un inizio o una fine ben definiti; questo è il corpo, questo è il suo vestito, cucito nottetempo da mani di sarte senza nome.
Se la moda interessa il nostro essere, oggi la gran parte dei fruitori, non ha voglia di impegnarsi poiché la possibilità di "essere" ci costerebbe una buona dose di fatica-tempo; e al posto di manifestare il nostro gusto o non gusto, si preferisce delegare agli influencers che stabiliscono in chiave foucaultiana una vera e propria biopolitica del vestire, intaccando inevitabilmente i banchi di followers che lasciandosi condizionare nella scelta di come vestirsi, mostrano una pigra mancanza di "personalizzazione".
Ebbene sì, chi non fa moda da sé, non esprime il proprio essere ma si limita a seguire la moda altrui, non maturando così la propria identità. Se l'imitazione è la più raffinata forma di adulazione, per converso, il fenomeno sempre più attuale della customizzazione del proprio guardaroba, costituisce una forma di risveglio di quella personalità latente menzionata poc'anzi.
Come accade nell'esperienza poetica della poetry kitchen, teorizzata da Giorgio Linguaglossa, così sta avvenendo sui corpi che scelgono di "cucinare" abiti unici che mescolino ingredienti di stoffe diverse, spesso contrastanti, per creare qualcosa di nuovo e spiazzante.
Rimanere fedeli alla propria identità ci fa comprendere come noi stessi, siamo superfici di scrittura: la moda diventa una scrittura vivente sul corpo, un linguaggio che comunica senza parole, rendendo visibile l’invisibile.
Ma accanto alla moda che rivela l'essere, ecco schierarsi il lusso che interpella la categoria dell'apparire. Uno scisma per nulla scontato, quello tra la moda e il lusso, quest'ultimo sopravvive grazie ad una forza produttiva generata dalle macchine desideranti: individui, per dirla alla Guttari, che pur di dimostrare l'appartenenza ad uno status, apparirebbero a costi altissimi, con capi e accessori del calibro di Hermès e Chanel.
A poco bastò lo scandalo che avrebbe potuto minare la credibilità di questi colossi del lusso, quando si scoprì che in origine una borsa di Dior costava appena 53 € per poi essere rivenduta nei negozi al prezzo di ben 2.600 €
Apparire costa denaro, un universo che impone dei bisogni come fossero un lasciapassare per accedere a feste blindate e jet set. L'etichetta del: "perché me lo posso permettere", ci condurrà così, ad una grave atrofizzazione del giudizio e della morale, nonché sintomo di una spersonalizzazione nevrotica.
Il vestito -sacro o profano, religioso o civile- è nascosto dentro di noi, intessuto con la nostra stessa essenza che forse non ha nemmeno cuciture, come la tunica di Gesù, che nessun centurione sotto la croce ebbe il coraggio di strappare: tirarono solo la sorte su di essa, e qualcuno la sta cercando ancora, insieme alla propria identità.
Autore
Mariavittoria Dotti