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Le parole ci servono, ci aiutano, non è una grande rivelazione. Le parole sono strane, o almeno così mi verrebbe da dire: alle volte reputiamo di impiegarle liberamente, le selezioniamo prima di parlare, come se fossero lontane e le potessimo osservare con distacco, ma non è una novità riconoscere che esse ci sono vicine molto più di quanto crediamo. Ce ne possiamo rendere conto anche nelle relazioni affettive: quante inclinazioni vocali, quante pause e soprattutto quante espressioni ricorrono nelle persone che amiamo. Alle volte si ha addirittura l’impressione di ritenersi gli unici in grado di poterle interpretare, ma forse qui si pecca di presunzione. Quando i nostri cari vengono a mancare, pensiamo subito a quello che con essi è andato perduto, e quindi anche alle loro parole, che abbiamo imparato col tempo ad amare. Si vorrebbe diventare sepolcro e al contempo archivio, museo, epitaffio, si ha la sensazione che la persona che vivrà dentro di noi avrà bisogno della nostra incessante opera di conservazione, per poter parlare ancora. Questo credo sia il senso dei versi del poeta marocchino Abdellatif Laâbi quando nella poesia “La langue de ma mère” scrive di “tutta la specie in estinzione delle sue parole” riferendosi alla madre, che non vede da vent’anni e di cui è rimasto “l’ultimo uomo sulla terra a parlare ancora la sua lingua”. Tutta una vita si cela sotto “l’introvabile rosario dei suoi diminutivi”, fatto di un numero sconfinato di piccole pietre, enormi massi e perle informi, appartenenti alla sua esistenza e solo ad essa. Poi dentro di noi tutto si consumerà- anche questo lo sappiamo- e, se il tempo ci induce a dimenticare, forse avremo bisogno “solo” di una piccola coincidenza fortunata per ritornare a visitare chi non c’è da molti anni. E magari sarà proprio un’espressione casuale a stimolarci e a farci rivivere per qualche istante la gioia dei tempi vissuti.
Autore
Emanuele Poli
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