La diagnosi di Fisher? Anedonia politica.
Ma esiste un’alternativa al capitalismo?
Eppure, si potrebbe stilare un’interminabile lista di dissidenze attive: i No-Global della battaglia di Seattle, il movimento Occupy Wall Street, i Jilet Jaunes e le numerose folle che hanno animato piazze e boulevards di mezzo mondo. Continuo volentieri: i manifestanti Pro-Palestina tutt’ora nelle piazze; i precari in età pensionabile; chiunque tema l’ingerenza straniera nelle proprie elezioni oppure chi lotta per il futuro del proprio Paese con le armi e con un coraggio inestimabile. La parola d’ordine è ambo crisma e corvo del malaugurio: il funesto “cambiamento”, l’abisso infuocato dove le rivoluzioni sorgono e vi finiscono inevitabilmente ad affondare. L’uniforme di queste nuove “guardie rivoluzionarie” è solitamente uno stemma ideologico. Magari è la bandiera di un popolo oppresso oppure uno slogan senza tempo. Sguainata e pronta a colpire è la loro arma, una presunta voce popolare che ambisce a farsi sovrana sopra tutto ciò che le compete, ovvero proprio “tutto”. Come l’amore, anche la sovversione profuma d’infinito, ambo nelle sue costruzioni teleologiche e nelle panoplie che sfoggia alla luce del sole e delle telecamere. Tuttavia, nonostante si possa avere interminabili riserve su questi anni 2010-2020 e oltre (consiglio il volume di Vincent Bevins, Se noi bruciamo: dieci anni di rivolte senza rivoluzioni), pare che sia stato proprio il Muro ad aver dato il colpo di grazia, crollando insieme alle certezze di una reale alternativa. Non v’è nulla da fraintendere: seppur fallimentare sotto molteplici aspetti, l’Unione Sovietica scintillò realmente come pieno esperimento socio-economico. Certo, fu il risultato di un’applicazione tirannica, spregiudicata e giacobina dell’ideologia ma non è possibile rinnegare in toto le molteplici istanze sinceramente e decisamente oppositive, agli antipodi rispetto a quel neoliberismo pseudo- democratico e “dal volto umano” in cui sguazziamo da decenni. In parole povere, fu davvero un’alternativa, un punto di riferimento per intere generazioni di giovani radicali, ingenui o meno, in buona e cattiva fede. Ma la Storia, lungi dall’essere terminata come vorrebbe propormi qualche bacucco illuso che profuma ancora di Reagan, non pare neanche essersi realizzata in quell’immagine che putiniani e Co. insistono nel proporci: il fantastico mondo "multipolare" e “postcoloniale”, dove quel “multi” e quel “post” non riconoscono le reali gerarchie vigenti, nonostante non li ritenga totalmente errati. Piuttosto che cadere in istanze pericolosamente semplicistiche (e spasmodicamente convenienti per alcuni), proporrei di leggere tra le righe di queste contrapposizioni internazionali uno scontro classico tra potenze revisioniste (Cina, Russia, ecc.) e potenze guardiane e fruitrici (USA, UK, Francia, ecc.) di uno status quo geopolitico che procede da diverso tempo e su cui non ho intenzione di espandere ulteriormente, non disponendo di una splendida sfera di cristallo. Difatti, non sono qui a proporre né una soluzione né tantomeno una presunta lettura “corretta” del parossistico Terzo Millennio, come continuamente tentano di fare una miriade di pennivendoli da quattro soldi intenti a cavalcare l’onda dell’ennesima definizione corretta, del prossimo grande conflitto da seguire, dell’incombente pandemia che ci sterminerà o di una qualunque crisieconomica, ambientale o securitaria da galvanizzarci in faccia mentre sorseggiamo caffè e ci adorniamo di belle frasi sui social.
Quello che vorrei sollevare è il dilemma iniziale:
Ma esiste un’alternativa al capitalismo? Vi è una frase celebre di Frederick Jameson, ripresa anche da Slavoj Zizek e da Mark Fisher, che credo possa chiarire al meglio il punto: “È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”. Una mente poco sveglia si desterebbe subito dandomi del “marxista alla Fukuyama” se sposasse questa frase come asserzione assoluta da “Fine della Storia” piuttosto che recepirla per quello che vorrebbe realmente essere: una brillante provocazione maieutica. Poiché è questo il grande bisogno di un’epoca caotica, delirante, iperreale e iperconnessa come la nostra: il pensiero, e provocatorio, se possibile. E no, non si pensa abbastanza, non si ragiona sui fatti come si dovrebbe e non vi è la consapevolezza reale della posta in gioco. Sul tavolo della puntata c’è quel “tutto” per cui milioni di persone combattono ogni giorno, che sia sugli Champs-Élysées o nelle strade di Tbilisi oppure nella giungla birmana.
Qua in Europa e in Occidente, dove sentiamo il fenomenale fascino del centro dell’Impero, affoghiamo perennemente in queste contraddizioni. La ciliegina sulla torta è proprio quel disgustoso intruglio post-moderno che inghiottiamo (e vomitiamo) ogni santo giorno, fatto di sarcasmo schizofrenico, di frequenti fughe dal giudizio politico (e dalla realtà) ed infine dal perenne e fagocitante consumo di cose su cose, di fatti su fatti, di persone su persone. Non ne sono totalmente esente manco io che scrivo, figuratevi. Ma vi svelo un segreto: quando consumiamo non siamo tanto differenti dal disperato che si divora un braccio per sopravvivere sull'isola deserta. Tutto è nella norma, è come dovrebbe essere in un sistema come questo. È la perfetta esplicazione del regime Realista-Capitalista in cui viviamo, il quale procede a braccetto con lo stemperamento psico-fisico a cui siamo sottoposti ogni giorno e che alimentiamo noi stessi, a partire dal modo in cui pensiamo e ci pensiamo. Manca sempre qualcosa, nel regime Realista-Capitalista, pure quando sei all’apice della piramide tecnofeudale e ti cibi delle carcasse.
La grande era dell’Anedonia: l’impossibilità di provare piacere in una società costruita attorno ad esso. Un perenne status di sovraeccitazione sensoriale, alternata agli elettrizzanti e profondi “Blue Mondays” che sembrano conficcarsi tra le minute pieghe dei contratti “40 ore, 500 euro, 3 pillole e un sabato sera alla settimana”. Tutto sembra finto. O fin troppo vero; iperreale.
Come sollevava intelligentemente Mark Fisher nel suo pamphlet del 2009, Capitalist Realism, questa formula va ad intaccare l’intero tessuto della realtà umana a partire dal mondo del lavoro. Qui, il controllo qualità, il just in time e le asfissianti richieste di sempre più numerose competenze e flessibilità non fanno altro che gonfiare una già ridondante mandria di giovani, disperati di fronte all’impossibilità di poter autosostentarsi o anche solo ambire a fare carriera. Ma senza cadere nell’acqua calda e nei luoghi comuni, Fisher rispolvera anche il dibattito sulle patologie mentali, su carta ancora incatenate ad una concezione iper-individualizzante (e molto conveniente) della psiche, dove sembra non esserci spazio per gli effetti che le macro condizioni socio-economiche generano nell'individuo, assiemeovviamente alle specificità biografiche. Subentra, dal retro del sipario, questo pervasivo culto delle apparenze, con tanto di sacerdoti e fedelissimi. Intendiamo i “burocrati della domenica”, il ridicolo numero di lavoratori alienanti e alienati, intenti non a produrre un bene o un servizio ma piuttosto a donare una parvenza di efficienza in mansioni vacue e prettamente consumistiche. Stiamo parlando anche del grottesco mondo dei fantomatici feedback statistici, dei rigurgiti dell’auditing (aziendale e non). È un piano esistenziale dove regna il culto sovrano dello “standard” da rispettare, della “norma” da applicare rigorosamente, pure quando contraddice l’umanamente sensato e la nostra bussola morale. Tutto ciò, l’autore lo affronta tramite un attento utilizzo di uno degli strumenti più belli e penetranti che la scienza ha messo a disposizione del marxismo accademico, ovvero l’analisi culturale. K-Punk, pseudonimo di Fisher ai tempi del suo celebre (ed omonimo) blog, ne usufruiva abilmente, srotolando le numerose façades della politica britannica/mondiale e della sua stretta contemporaneità. Il discorso diviene, quindi, più accessibile al lettore medio, il quale resta intrigato grazie ai numerosi omaggi alla musica post-punk ed hip-hop, al cinema distopico post-90’s, il tutto condito di rimandi alla tradizione filosofica contemporanea, in piena linea con autori come Deleuze, Guattari, Baudrillard e Land. Lungi dall’essere un saggio perfetto e candido, il lavoro di Mark Fisher tocca il dente lì dove duole di più, ovvero sensibilizza su come il capitalismo si sia talmente innestato nel nostro stesso modo di pensare e di vivere da non permetterci di giungere ad una soluzione alternativa. La continua propulsione alla ricerca di nuovi mercati, all’oppressione gerarchica e all’inegualità distributiva della ricchezza sono solo alcune delle fondamenta che caratterizzano l’intera struttura predatoria.
Morto nel 2017, prima di poter assistere ai nuovi Truly Roaring Twenties, come amo chiamarli, Fisher incarnava perfettamente ciò che Gramsci descriveva un secolo fa tra le colonne del suo “Ordine Nuovo”. K-Punk era il perfetto intellettuale di sinistra: un “pessimista della ragione” ma pure un “ottimista della volontà”, in piena regola con quella perenne e generale sensazione di malinconica sconfitta che adorna le spoglie sale della gauche universale. Ciononostante, è uno spirito critico ciò che ci lasciano libri come il suo; la voglia di capire tra le righe cosa ci stanno davvero urlando gli eventi. Ma soprattutto vi è un tacito invito a non fermarci di fronte alle apparenze di questo ingombrante Leviatano, multiforme e contraddittorio. Quel famoso “volto umano”, lo stesso delle filantropie disinteressate, della “democrazia esportata” e del greenwashing, il capitale l’ha voluto stropicciare senza troppe remore negli ultimi anni, come abbiamo avuto ben modo di vedere in Palestina, in Ucraina e in molti altri luoghi intrisi di sangue giovane ed innocente. Ma tutto va avanti, come sempre, giusto? L’apoteosi della sicurezza e l’epidemia dell’insicurezza:
“Via i guanti bianchi. È il Realismo a parlare. Voi continuate pure a consumare e non preoccupatevi del resto”.
Lasciatevi contagiare, dico io. Il primo sintomo è il sorgere di un desiderio, uno di quei aneliti sinceri e calorosi, capaci di sublimarsi in un’umanità solidale verso il prossimo e in quello stesso spirito di cooperazione pragmatica di cui tanto ci vorremmo riempire le tasche. Poiché per fuggire da questa società dell’anedonia, bulimica e cauterizzata nel profondo, serverendersi conto che è più facile immaginare la fine del capitalismo che la fine della lotta, là fuori e qua dentro.
Autore
Nicholas Contini
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