La mattina del 15 luglio ero al Leoncavallo, via Watteau, 7, Milano.
Era da molto che non ci tornavo. Lì ho scoperto il reggae e la controcultura milanese da giovane profano della bassa cremonese; nel corso delle mie visite vi ho conosciuto un bordello di persone, tra le più disparate. Ma soprattutto è uno di quei luoghi del cuore in cui ho avuto il piacere di respirare tanta aria di libertà: musicale, politica, sociale.
Parliamo della splendente Milano della Ferragni e di Sala, tutt’ora indagato dalla procura mentre scrivo. L’asettica Ambrosiana dai palazzoni grigio-neoliberista, come quello che sorge esattamente a fianco dello spazio occupato. Qui la definizione istituzionale di “decoro pubblico” è quasi paradigmatica. Oltre a prevedere il divieto del fumo all’aperto e i giri di mazzette nell’urbanistica comunale, abbraccia pure il raddoppiamento del numero del personale della Polizia Locale. Un quadro che racchiude alla perfezione la classica concezione borghesotta e lombarda della questione sociale nelle grandi città. Più repressione, meno sostegno. Ti vorrebbero far credere che i veri indignati siano quelli che mangiano al ristorante ogni settimana. Da tali effervescenze paranoiche non scampano, ovviamente, i centri sociali, l’inguaribile capro espiatorio dei centro-qualcosa (spesso “-destra” ma pure “-sinistra”) e di chi in piazza ci scende solo il giorno del mercato o quello dell’aperitivo. Tutto ciò è confermato anche dall’onnipresente Digos, in classico abbigliamento insospettabile, ad osservarti mentre cammini a fianco del “Leonca” come se sorvegliassero un criminale di guerra in fuga dalla legge.
Sulle pagine de “Il Manifesto” Andrea Cegna scrive che “l’attacco al Leoncavallo è parte della fame di cemento, della speculazione e della privatizzazione che la città vive”. E qui si arriva a ciò che è successo giorni fa. Ammonta, infatti, a 3 milioni di euro la cifra che il Viminale pretenderebbe da Marina Boer, presidentessa delle mamme antifasciste del Leoncavallo, de facto portavoce dello spazio autogestito. Il prezzo concreto, per quanto assurdo, di 30 anni di occupazione in via Watteau pesa sulle spalle di una signora pensionata che rischia il pignoramento dei propri beni, data l’assenza di patrimonio dell’associazione a cui capo si ritrova. “Ridurre la questione a una vicenda personale tra me e il Viminale deforma la realtà e non tiene conto del valore storico e collettivo del centro sociale”. Continua la Boer: ”Senza il Leoncavallo, come anche altri spazi culturali, Milano è un manichino vuoto”.
Con quello del 15 luglio 2025 salgono a più di 120 i tentativi di sgombero di un luogo che la CGIL, con arguzia pragmatica, ha voluto definire “una risorsa per la città, una risorsa democratica”. E come andargli contro. Il fenomeno delle occupazioni e dei centri sociali non è sicuramente tutto italiano (consiglio sempre un giretto a Berlino, a tal riguardo) ma siamo stati pionieri nell’ambito, senza ombra di dubbio. Un parto del borghese ’68 e del radicale ’77, quello dei primissimi punk, della terza ondata femminista e delle grandi lotte autonomiste. Ecco come la pratica dello squatting prese facilmente piede in Italia, abile arma adatta a far fronte allo sgretolamento delle istituzioni familiari e socio-culturali in un Paese che il piombo e il sangue li inghiottiva quotidianamente. Allo sgocciolare della fiducia collettiva nei grandi partiti e nella sfera ufficiale del pubblico, si rafforzavano le iniziative extraparlamentari. I medesimi spazi, fisici o meno, che lo Stato trascurava spudoratamente e che l’istituzione imprigionava tra le scartoffie di archivio e le profumate strette di mano in diretta tv divenivano, d’un tratto, le grida e gli arazzi di una gioventù incazzata fino al midollo, lettori di Sofri, Pasolini e Negri. Erano gli anni dello Yom Kippur e del golpe di Pinochet, avallato dalla CIA; della strage nera di Piazza della Loggia e del referendum sul divorzio; della fuga americana da Saigon e della Rivoluzione Culturale di Mao Zedong.
Ebbene, nel 1975 nasceva quello che oggi si chiama “Spazio Pubblico Autogestito Leoncavallo”, dal nome della via in cui sorgeva la primissima sede, un ex stabile all’epoca abbandonato da anni. Per chi, come me, è cresciuto nella profonda Padania, dove l’umidità ti solletica l’amigdala giocandoti non pochi scherzetti, edifici come cascine abbandonate, ex stabilimenti industriali e magazzini scarnificati appaiono come rovine di un’epoca che fu; quel famoso tempo “in cui si stava bene” di cui ti continuano a riempire le orecchie boomer e compagnia bella, tra un bianchino e l’altro al bar. Scenario assai differente da quello della plasticosa, frenetica, sporca Milano ma con i cui “detenuti” riesco tranquillamente ad empatizzare. Per chi è di lì, Leoncavallo vuol dire tantissime cose: l’arte di strada, la musica ska, punk e techno, le ronde antidroga nei rioni, spazi liberi e sicuri per le donne e chiunque sia oppresso, le “mamme del Leoncavallo”; e poi il tristissimo omicidio di Fausto e Iaio, la guerra ai fasci nei quartieri popolari e pure la “battaglia” dell’estate 1989, quando volarono molotov e lacrimogeni durante uno dei più duri e violenti tentativi di sgombero del centro sociale da parte del Comune e delle forze dell’ordine. Spostatosi in via Watteau nel 1994, sopravvivendo alla crisi dei movimenti operai e della Sinistra post-anni di piombo, oltre che ad un perenne status di irregolarità immobiliare, rimane tutt’oggi il fior fiore della controcultura milanese. E questo nonostante la metropoli sia stata costellata di altre occupazioni di autonomisti/extraparlamentari tutt’oggi ancora in vita, come Villa Occupata (ex Villa Vegan), Cox18 e Cascina Torchiera.
Ovviamente non sono scemo. Parliamo di esperienze politiche che volutamente si inseriscono al di fuori della legalità. E ciò non sempre, a mio avviso, crea necessariamente un ambiente di convivenza ideale, tra musica fino a tarda ora ed eventuali screzi con il vicinato. Ma davvero a Milano, sia per la famiglia Cabassi, proprietari dello stabile, sia per il Comune, la priorità è sgomberare un posto così importante per la storia della cultura, oserei dire, italiana? Frankie hi-nrg mc diceva che “il fine è solo l'utile, il mezzo ogni possibile” ma allo stesso tempo dal profondo del mio cuore vi dico che sarebbe ora di smetterla con le solite stronzate da vecchiacci incrostati alle poltrone delle dirigenze. E pure di metter da parte una peculiare intransigenza alle aperture che sento pesantemente da entrambe le parti della “terra di nessuno” (calza alla perfezione). Io dico, a voi conservatori della domenica tanto indignati e così poco informati: provate ad entrarci in uno di questi posti. A levarvi le vostre giacche firmate e a venire a bere una spumosa birra affianco ad un paio di rastoni in botta spirituale.
Scherzi a parte, venite a sentire che cosa si respira quando ci si libera di certi preconcetti. Dico così perché effettivamente non sto parlando di una Nuova Gerusalemme dove l’ideologia si scioglie in quel disinteresse iconoclastico ed empatico che alcuni desidererebbero generasse l’ambita concordia civile. Siamo pur sempre in spazi 1) occupati 2) schierati e 3) militanti dove sicuramente non ti puoi permettere determinati eccessi, sarcastici o meno. Lì dentro non si spaccia né droga né intolleranza, prima fondamentale legge divina.
“No machi, no sbirri, no fasci” è il classico monito che viene appiccicato alle locandine degli eventi di quasi ogni centro sociale di sinistra. Non sto parlando di militanti delle BR ma di giovani e anziani che vedono nei graffiti, nella musica underground e nella politica di quartiere un collante di intenzioni costruttive verso il proprio abitato e quello altrui. Si parla così tanto di “crisi democratica” ma ancora non si riesce a capire quanto siano necessarie realtà locali di questo tipo, soprattutto in Paesi dove il capitale ha smantellato quasi del tutto tutte le strutture che detenevano un ruolo analogo in precedenza. In Italia i punti di ritrovo dei giovani, definibili “mainstream”, sono ora i centri commerciali, i bar di paese scrausi e i negozi di abbigliamento firmato. La depoliticizzazione delle metropoli ha bandito gli strati culturali più scomodi, relegandoli a fare parte di realtà fisiche strettamente identificabili dal punto di vista ideologico. Tradotto: se voglio ascoltare musica punk devo andare in un centro sociale poiché sicuramente non la potrò sentire in un locale del centro. Scontato, vero? Ma non lo è nel momento in cui luoghi del genere detengono l’unica concreta alternativa per chi non vuole sballarsi in discoteca e non va a guardare la partita la domenica. Per chi in qualunque altro contesto sarebbe trattato come un reietto o un obbrobrio e anche per tutte quelle persone che si sentono fuori posto. “Esco dalle mura e non c’è mai un cazzo da fare” diceva Luca Abort quando con i Nerorgasmo cantava la “Pietrogrado” degli Agnelli. E qui è impossibile non pensare alla recente vicenda giudiziaria del centro sociale autogestito “Askatasuna” di Torino, definito “associazione a delinquere” dati i trascorsi NoTav e l’invio di volontari in lotta contro l’ISIS nel Kurdistan siriano, il Rojava.
Ma il punto è questo: andrebbe ricordato che noia e alienazione sono due facce della stessa medaglia, soprattutto per quanto riguarda i giovani. Sentiamo troppo spesso parlare di noi come essere inanimati, prevedibili, inquadrati all’interno di programmatiche sistemazioni decise dall’alto dei troni. In questo senso le città ci offrono e ci tolgono tutto quello di cui necessitiamo. Sono spazi condivisi e allo stesso tempo individuali, all’interno dei quali i vissuti si scontrano, si mescolano e si compensano. Luoghi come il Leoncavallo assumono allegramente il proprio ruolo di Babilonie di lingue, culture e arti. Sono spazi di dialogo e confronto reali e non fittizi, come qualche decrepito salone comunale continua a suggerirmi. Come dico sempre, sta a noi decidere cosa conti di più, se la priorità, quella di aggregarci senza filtri e privi di pregiudizi, o la formalità, l’immagine spurgata di una metropoli senza una propria personalità, appiattita dalla logica del guadagno e del grottesco “decoro”.
Autore
Nicholas Contini