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Distopia/utopia. Thanatos/Eros. Incubo/sogno. La sciolta e superba maniera delle lingue; secoli e secoli di mezcla teorica e pratica hanno portato ai labirinti delle nostre concettualità. Ma in particolare sono le opposizioni dicotomiche ad esercitare un certo fascino sulla mia persona. Una sfrontata reliquia del pensiero antico?
In fondo, alla luce degli ultimi due secoli — i più deliranti di tutta l’esperienza umana — cosa separerebbe la perfezione utopica da quella distopica? Forse il sistema stesso e i suoi fedelissimi? Il modus operandi dell’ideologia all’interno di un proprio campo libero si deve ridurre per forza a quello di una Super-dittatura alla Grande Fratello?
In effetti il profondo fascino che proviamo per il concetto di «perfezione», scavalca qualsiasi altra cosa, soprattutto quando si parla di mondi di fantasia (e di politica). Che lo si voglia o meno, distopia e utopia risvegliano una parte nascosta in noi; probabilmente è la stessa voce che pondera continuamente alla ricerca della Verità, quella monumentale, irremovibile e meretrice in nome della quale in genere si uccide (ma non solo). Paradosso dentro un paradosso quando ci rendiamo conto che nella fiction distopica è sempre andato di moda l’archetipo anti-fantozziano del o della protagonista che tenta di imbracciare le redini del proprio destino contro una o più Verità assolute. Volontà individuale che sovrasta l’incubo collettivista. Massì, lo conoscete, è il classico intreccio: situazione iniziale (in genere tirannica, oppressiva e univoca), presa di coscienza, azione, conseguenze ed epilogo (tragico o meno). A volte l’ordine è sovvertito, altre snaturato, in alcune rafforzato ma di base questa è la tipica logica della rappresentazione distopica: dinamica e in continuo allontanamento (o avvicinamento) dalla staticità iniziale.
V per Vendetta realizza alla lettera tale paradigma: distopia dei tanti, utopia dei pochi. Prima del bombarolo anarchico non è che si stia davvero bene ma è proprio vero che esiste la stabilità, per quanto equivoco possa risultare il termine in un contesto dittatoriale (ma pure democratico). Cosa vuol dire stabilità? È questione di prospettiva, ovviamente. Poi esistono casi come Arancia Meccanica dove il fulcro non sta tanto nel world building e nello sviluppo di trama quanto piuttosto nell’individuo che funge da protagonista e le sue personali vicissitudini; Alex DeLarge è un sociopatico violento e sbruffone, una spezia deliziosa che insapora ulteriormente i dilemmi morali a disposizione dello spettatore/lettore. Ma il punto è che le macabre effervescenze dei Drughi sembrano quasi una normalità pure quando vengono punite («cura Ludovico»). C’è una risposta per tutto, anche per l’irrazionale. Children of Men, che tra tutte le opere che troverete citate all’interno di questo «articolo» rimane, a mio avviso, la più inquietante e verosimile, potrebbe quasi farcela, a farci capire che in realtà il sistema è nel caos e non il caos ad essere sistematico.
In altri racconti un po' più «tradizionali», come Hunger Games, si attinge, invece, a tutto quell’immaginario medievale del tumulto popolare e della vendetta di classe: l’idea del singolo (Katniss) che sovverte il sistema dal basso, non senza l’ausilio delle masse «barbariche» (ricorderei il finale a tal proposito); vengono demolite le rigide divisioni del potere; si ristabilisce il movimento verticale all’interno della società, apparentemente. Estremamente lontano dai Ciompi o da Fra Dolcino che si rifugia sulle montagne a fare le orge con i suoi fedelissimi. E aggiungo: un tantino socialista se analizzato come fece il defunto Mark Fisher. Difatti, dico io, ogni Distretto rappresenta precise classi produttive, esenti da qualunque forma di razzializzazione (ma magari mi sbaglio, eh).
Apparentemente il modello per eccellenza rimane, oggigiorno, Orwell, il quale costruì il suo totalitarismo, quello di Oceania, sulla costrizione psicofisica e sulla manipolazione della realtà attraverso l’informazione. Ivi, le categorie risultano essere estremamente chiare, paradossalmente. È una necessità che Hitler stesso riconosceva espressamente come cardine fondamentale nel processo di adulazione mediatica e che sembra non essere estranea neppure agli odierni demagoghi (lascio alla vostra immaginazione a chi mi riferisca). Il punto è che se vuoi costruire un sistema organizzato, è necessaria una precisione platonica (noi/loro, razza superiore/inferiore, borghese/proletario, etc.). Vi è una celebre sezione in 1984 dove addirittura l’autore ci imbocca con un discorso un po’ scontato sulla classica divisione in classi («Alti, Medi e Bassi») e sulle manovre che le élite devono compiere, non solo nella galassia del Grande Fratello ma in qualunque altra situazione storica. La sorprendente (e scabrosa) semplicità del discorso orwelliano, tale da ricordare tanto Erodoto sulle forme di governo quanto l’antropologo Morgan sulle classificazioni familiari, non deve, però, tradire la centralità della biografia dell’autore tra le influenze esercitate sul romanzo. Evidentemente un proiettile falangista nel collo non fece altro che rafforzare il caro vecchio Orwell nel perseguire la propria parabola socialista all’inglese, ben visibile pure in quell’infuso psicotico, a metà tra commentario coevo e avvertimento schizopolitico che è ancora oggi 1984. D’altronde fu soltanto il più celebre esponente dell’intera mandria di autori «paranoico-distopici» che sentiamo citare perennemente sia da Destra che da Sinistra, quasi fosse una partita di biliardo e fungessero da palla nera (il punto è che nessuno delle due parti riesce ad imbucarla). Tutti maniaci ossessionati dai possibili frutti del Novecento dittatoriale: Wells, Bradbury, Dick, Atwood, London, eccetera. E tutti ti presentano universi troppo lontani per spaventarci fino in fondo (salvo alcune eccezioni).
QUINDI: Il genere distopico, di norma, eccelle nell’esaltare il gusto estetico del lettore e la sua brama di dramma avventuroso ma non riesce a far scaturire qualcosa di realmente originale oggigiorno, che sia stimolante alla riflessione del poveraccio che decide di incastrarsi in questi universi di fantapolitica, fantascienza e fantacoscienze. Ciò vale soprattutto nelle contrapposizioni etico-morali introdotte nella costruzione dello stesso Stato Distopico (lo chiamo così per comodità ma potrebbe benissimo essere un Regno, una Repubblica o un bagno pubblico su Marte). Intendo dire che ci si sofferma molto sull’intreccio e raramente sullo sfondo, quel mastodontico sistema che pare esser sbucato dal nulla, con polizia segreta e ministeri della Propaganda annessi. Godiamo nell’ammirare l’eroina o l’eroe di turno demolire pezzo per pezzo la scacchiera ma non si riesce ad aprire gli occhi su come una distopia viene all’essere. Le disgressioni sulle fantastiche Weimar (e sui susseguenti Nazisti) o spaventano o provocano il ridicolo, in genere. E fa ridere pure me, lo ammetto, è divertente.
Forse i romanzi e i film distopici non sono fatti per un pubblico che già vive in distopia/utopia. Il motivo per cui uso in maniera così intercambiabile i due opposti è che effettivamente sfasano quando applicati e pensati. E non poco. Esagero?
È proprio qua che converrebbe introdurre Aldous Huxley con l’estrema cautela che richiede un autore della sua statura, non tanto perché non lo si potrebbe considerare un altro da manicomio per semi-profeti ma piuttosto per l’originalità del suo apporto alla riflessione distopica. Non credo sia solo una mia impressione ma il suo capolavoro sembra superare abilmente i confini tradizionali di un genere fin troppo frainteso e citato.
Effettivamente leggendo Brave New World (BNW, da qui in poi) si soffre la classica ed illuminante confusione dell’ospite inatteso: il lettore passa dall’interno all’esterno della struttura, dall’apice al baratro della gerarchia di caste, dall’inizio alla fine delle possibilità offerte da un cosmo che gode senza soffrire. Distrutta è Antigone (o forse resa innocua?), sotto il peso della Realpolitik applicata alla maniera utilitaristica dell’organizzazione sociale, una grande fabbrica privata del proprio rapporto con la Natura. In un mondo come quello che Huxley ci ha voluto raccontare non c’è posto neanche per il sogno, quello vero, che arriva spontaneo come le stagioni e il canto delle cicale, senza l’ausilio di psicotropici epicurei (in BNW si utilizza la soma, perfetta droga edonistica). L’onirico traspare semplicemente come eccesso dell’emozione, quell’orrenda cantilena che la società dei VERI consumi ha voluto sopprimere, in nome del bene collettivo. Al posto di Dio si erge un ambivalente Ford, uomo elevatosi a divinità grazie alla celebre concezione della catena di montaggio. Vi è pure un passo quasi deleuziano-guattariano dove Huxley scrive «Nostro Ford, Nostro Freud», tanto per buttare benzina sul fuoco o forse per render conto dell’unicità di questa figura nel Mondo Nuovo. Al posto della famiglia e del parentado, assistiamo alla comunanza dei corpi e dei sessi, slegati da qualsiasi impegno personale ed emotivo e sotto perenne sovraeccitazione dei sensi, in piena regola edonistica. Nel contesto fordista e fantastico di Huxley, la promiscuità è una necessità; una pressione sociale onnipresente e non più un tabù da quattro soldi. Ciò, paradossalmente, è più deumanizzante del puritanesimo di fondo presente nella dittatura orwelliana, data l’impossibilità di riuscire a legarsi realmente a qualcun altro. Almeno ad Oceania è possibile farlo in nome del Partito, sia chiaro. D’altronde Huxley ci racconta la trasformazione dell’umano in prodotto di serie, marchiato col ferro rovente della casta piramidale e predeterminato fin dall’età embrionale, coltivato accuratamente all’interno di apposite strutture da infinite equipe di Matricolatori, Fecondatori e Predestinatori. Risulta naturale quanto ingombrante diventi la famiglia tradizionale in un contesto di questo tipo. Immutabilità, prosperità e omogeneizzazione dell’individuo.
Vi si legge un po’ di tutto qui dentro: caste induiste, consumismo estremo e culto positivista della scienza. Ma anche il bene collettivo, la stabilità economica e la pace mondiale. Eccole, distopia e utopia. Tutte le società «perfette» risultano essere l’effetto di un’applicazione assoluta di un sistema di credenze (leggi «filosofico»). Quella orwelliana è ben lungi dall’essere stabile (guerra perenne, bombardamenti), ricorderei. E in genere chi vi si ritrova contro viene ritratto come libero pensatore, ergo individuo, rivoluzionario. L’esordio di Winston Smith (1984) e Guy Montag (Fahrenheit 451) alla ribellione nei confronti dello status quo nasce tramite un’abiogenesi abilmente contestualizzata: il primo attraverso il diario segreto e la relazione erotica con Julia, il secondo assistendo all’autoimmolazione di una vecchia assieme ai propri libri, oltreché alle apatie anaffettive della moglie.
In BNW non vi è spazio per tutto ciò poiché il sovversivo è, in un certo senso, preconfezionato; l’insulso scarto di una produzione di cittadini pressoché perfetti. Come le magliette del Che, per intenderci. Rigurgito del sistema ma nemmeno così pericoloso; anzi, potrebbe risultare catartico per i cittadini, in un certo senso. Il caso di Bernard Marx è esemplare, la cui squallida parabola non è altro che il risultato di qualche goccia d’alcool accidentalmente caduta nel vitro durante il periodo d’incubazione: puro errore nella catena fordista. Lui, come anche l’amico e poeta Helmholtz, sono Alpha, la crème de la crème; eppure, non riescono ad essere pienamente felici, capiscono che manca qualcosa: per Marx, emarginato a causa del proprio aspetto, è l’essere all’altezza della propria casta; per il poeta è l’ambizione all’unicità e al dramma, elemento che nella società moderna sembra essersi realmente affievolito privando gli umani di ingenti possibilità di sublimazione creativa (e marziale, come Yukio Mishima avrebbe ben compreso qualche decennio più tardi).
Quando il momento di «ribellione» incontra l’intervento dell’autorità (il governatore Mond) le cose sono più anticlimatiche di quanto non ci si possa aspettare: niente camere a gas, 2+2=5 o strambe torture psicologiche da film. I due vengono mandati sulle isole dove i confinati sono liberi di organizzarsi e vivere come meglio credono. «E meno male che ce ne sono a bizzeffe (di isole)», dice Mond, «altrimenti dovremmo sterminarvi», ridendo pure.
E John, il cosiddetto «Signor Selvaggio»? Forse l’elemento meno prevedibile e programmabile dell’intero romanzo. Finisce col soccombere al fatalismo di un individuo che rifiuta la logica edonistica del Mondo Nuovo in nome della sacralità di spirito. In un mondo dove conta soltanto il tangibile e godibile, dove il dolore, concettuale e fisico, è stato estirpato, l’eccesso ascetico porta alla distruzione del prossimo e di sé; povero John, rifiuta la carne ma ne rimane ossessionato. Diventa lo zimbello ideale della mente consumistica. Il King Kong di questa storia. Avrebbe forse dovuto rinnegare qualunque significato extra-materiale, non meccanicistico e non deterministico, non è vero? Avrebbe dovuto giacere con Lenina e farsene una ragione di tutto quell’edonismo, che effettivamente lì, in quel preciso universo delineato da Huxley, sembra funzionare (e mi vengono i brividi mentre scrivo). La felicità è a portata di mano, basta smettere di pensare. Nel Mondo Nuovo per queste «baggianate metafisiche» non c’è più alcun spazio, non servono più a risollevarti dalle fanghiglie pessimistiche. Ad ogni modo la vita dura de facto nel Mondo Nuovo non esiste già più, poiché l’operaio Epsilon (casta più bassa) è «programmato» per stare al proprio posto senza manco questionare.
Il piacere è un assoluto, un panteismo inequivocabile e inevitabile. Ma al tradizionale panem et circenses Huxley aggiunge un ulteriore ingrediente: un efficace utilizzo della manipolazione genetica e della scienza predittiva/comportamentale (Gattaca-style, per rimanere sul tema distopico e bio-punk). La distrazione mediatica dei cittadini è la ciliegina sulla torta, continua presenza che funge da lenitivo e soppressore delle emozioni troppo forti (guardatevi Equilibrium già che ci siete).
Tutto ciò mi ricorda fin troppo i nostri tempi, estremamente distratti, alla perenne ricerca del piacere. L’inquietante ritorna a tormentarci dalle pagine di un libro scritto 94 anni fa ma che risulta più attuale che mai. Complici anche la prefazione del 1946 e il saggio del 1961 attraverso i quali Huxley ha salvato dalla prova del tempo la sua opera, relativamente parlando. Rimaneva pur sempre un semi-elitista, convinto che il potere dovesse essere nelle giuste mani ma eternamente terrorizzato dalla sua stessa profezia. Salvo alcuni eccessi di preveggenza, perdonabili all’interno del contesto immaginario, siamo davvero sicuri che tutto ciò sia soltanto una fantasia paranoide? Che non ci stiamo realmente avviando verso un futuro di questo genere?
Edonismo che plasma le società e le coscienze. Classico di epoche in cui la crisi è più che politica ed economica. Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stato il piacere a tiranneggiare sulle nostre teste? Sia chiaro, questo finché ti puoi addormentare nella culla dell’Occidente, quella che ci vuole diligente di fronte alla legge, diffidente nei confronti dell’amore incondizionato e obbediente alle brame di classi dirigenti dai pochi scrupoli. Pure i genocidi sono divenuti beni di consumo, oggetto di mediatizzazioni estremamente lucrose.
Cosa accomuna, secondo me, distopia ed utopia? Il controllo. Che ricorderei essere soprattutto indiretto, anche nel vero presente.
Fluido, non necessariamente fisico; ottenebrante, dal volto caldo e amichevole. Non puzza. Al massimo profuma. Di carta stampata, sudore acidulo e benzina. Di sale d’attesa, disinfettante e ferraglia. Di carne bruciata e piombo. Di candidi ascensori e naftalina.
Autore
Nicholas Contini