Alle 7:17 del mattino del 23 giugno 2025, l’agenzia di stampa iraniana Tasnim annuncia con un freddo comunicato la notizia che scuote la regione: Mohammad‑Amin Mahdavi Shayesteh è stato giustiziato per spionaggio al servizio del Mossad, accusato di aver guidato una rete cibernetica pro-Israele. Ammanchi di garanzie procedurali, confessioni estorte sotto tortura, accuse di processi sommari — Amnesty International ha denunciato un “tribunale senza diritti”. Ma l’esecuzione, in pieno conflitto, ha un intento politico definito e inequivocabile. Quasi in contemporanea, l’aviazione israeliana dà il via a una serie di attacchi balistici senza precedenti: sei aeroporti militari iraniani — Kermanshah, Dezful, Shiraz, Mehrabad (Teheran), Mashhad ed Esfahan — vengono colpiti con precisione chirurgica. I media iraniani riportano hangar distrutti e piste resi impraticabili; fonti occidentali stimano almeno 15 jet tra F-14, F-5 e AH-1 andati perduti. Immagini satellitari confermano: corsie d’asfalto polverizzate, depositi missilistici in fiamme, rifugi sotterranei devastati . Secondo il Wall Street Journal, l’attacco rappresenta “l’azione militare più intensa dal 13 giugno” , superata solo dagli attacchi nucleari del 20 giugno a siti atomici iraniani. La strategia appare chiara: neutralizzare la capacità aerea iraniana, interrompere la proiezione di potenza iraniana e preparare il terreno per colpire in profondità. Teheran reagisce con durezza, lanciando centinaia di missili balistici e droni contro Israele. Le sirene a Tel Aviv echeggiano per ore, la popolazione raggiunta da materiale shrapnel. Nessuna fonti ufficiali israeliane confermano cifre su vittime, ma si parla di feriti e danni estesi . Il portavoce delle Forze Armate iraniane, Ebrahim Zolfaghari, avverte: “Conseguenze gravi e imprevedibili attendono chi varca queste linee rosse. La nostra risposta sarà potente, mirata, coordinata.” Negli ultimi giorni, Washington ha colpito le installazioni nucleari iraniane di Esfahan, Natanz e Fordow con bombe bunker‑buster, mobilitando 14 B‑2 Spirit. L’AIEA lancia l’allarme: “rischi radioattivi fuori scala”, evacuazioni in corso . Pur evitando annunci ufficiali, l’amministrazione Trump non esclude l’ipotesi di un “cambiamento di regime”: il tycoon in conferenza stampa avverte che “o cambiano, o cambieranno loro” . Pentagon insiders, però, smentiscono questa intenzione, pur lasciando il dubbio aperto. Con le comunicazioni e il traffico petrolifero già pesantemente ostacolati, la minaccia di una chiusura dello Stretto di Hormuz appare concreta. Una mossa che paralizzerebbe un terzo del flusso petrolifero mondiale — una catastrofe economica globale. La UE avverte del “collasso incombente” dell’equilibrio geopolitico . Nel pomeriggio del 23 giugno, il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, vola a Mosca per colloqui con Putin. La Russia condanna ufficialmente gli attacchi, ma definisce l’Iran “partner, non alleato militare”, escludendo interventi diretti . In Europa, la presidente della Commissione Ue Kaja Kallas dichiara la crisi “un pericolo per l’ordine mondiale”, promuovendo evacuazioni e diplomazia. Ma sul tavolo diplomatico pesa una scarsa influenza: l’Europa appare incapace, per ora, di impattare realmente sulle scelte USA o iraniane. La dinamica attuale proietta l’intera regione in un vortice destabilizzante. Iraq, Siria, Libano vengono investiti da dinamiche proxy. I mercati petroliferi sussultano. Le oscillazioni di Tehran-Moscow ridisegnano gli equilibri tra Occidente e blocchi orientali. L’esecuzione di Shayesteh è solo il primo tassello di una fase estrema: con una dichiarazione politica registrata sul patibolo, Israele mira a tagliare le gambe all’aviazione iraniana, l’Iran risponde con missili e minacce, gli Usa entrano col bunker-buster e la diplomazia globale tenta fiaccamente di tamponare. Ma con lo Stretto di Hormuz sul punto di collasso, il rischio non è più locale. È il rischio di un segnale geopolitico globale: il conflitto oggi si gioca su un tabellone in cui ogni mosse può essere l’ultima.