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Come si è arrivati a votare la parola Repubblica?
Ecco, presentiamo oggi una piccola panoramica sui cambiamenti semantici che hanno portato, dal ventennio fascista, alla realizzazione della nostra costituzione e al referndum sulla Repubblica. Agli inizi del Novecento, l’Italia unita era ancora un esperimento incompleto, traballante. Le profonde disuguaglianze tra Nord e Sud, le tensioni sociali, l’analfabetismo diffuso (oltre il 40% nel 1911) e un’identità nazionale appena abbozzata rendevano lo Stato liberale vulnerabile. L’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale accelerò i processi di crisi, e al termine del conflitto, il Paese si trovò stremato, economicamente impoverito, politicamente instabile. In questo scenariodi profonda fragilità e paura sociale si insediò la feroce dittatura fascista. Il 31 ottobre 1922, Mussolini venne incaricato di formare un governo. Da quel momento, con un’abile strategia retorica, si impadronì non solo del potere, ma anche della narrazione. La lingua stessa venne militarizzata. Il "voi" divenne pronome ufficiale nei documenti pubblici e scolastici, sostituendo il borghese "lei". Si trattò di un intervento ideologico, teso a eliminare forme linguistiche considerate “straniere”, a favore di un presunto ritorno alla purezza latina. Come rileva la Treccani (Enciclopedia dell’Italiano, “Lingua del fascismo”), «la lingua fu strumento della liturgia fascista, e ogni parola divenne simbolo, evocazione, dispositivo retorico». I giornali dell’epoca furono epurati, la stampa piegata alla propaganda. Le testate indipendenti vennero chiuse, sostituite da titoli come Il Popolo d’Italia o La Tribuna, dove l’eloquenza autoritaria si fece norma. Le parole divennero armi: “Patria”, “disciplina”, “onore”, “ordine”, “imperium” ricorrevano ossessivamente, costruendo una sintassi del comando e della forza.
Questa forza era un’illusione, l’Italia soffriva più che mai e più che mai era frgile.
Il 25 luglio 1943, dopo la disfatta in Africa e il bombardamento di Roma, un passo decisivo, il Gran Consiglio votò la sfiducia a Mussolini. Il Re lo fece arrestare. Ma non fu la fine: l’8 settembre, con l’Armistizio di Cassibile, comunicato via radio dal maresciallo Badoglio con voce tremante e retorica incerta, l’Italia precipitò nel caos. Le parole furono poche, ambigue: «Il Governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta...».
Il giorno dopo, titoli come quello del Corriere della Sera («Le ostilità sono cessate») si accompagnavano al panico: mancavano istruzioni, parole guida. Il linguaggio ufficiale fu reticente. E così, il vuoto semantico si trasformò in vuoto politico: il popolo italiano, lasciato senza linguaggio né guida, scelse di farsi storia: La Resistenza non fu solo un fenomeno militare. Fu una rivoluzione semantica.
Il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), nato il 9 settembre 1943, rappresentò l’inizio di una nuova lingua della politica: i comunicati partigiani, ciclostilati e diffusi in clandestinità, restituirono un vocabolario nuovo, fatto di “popolo”, “libertà”, “giustizia”. Nei manifesti affissi alle pareti delle città liberate, si leggevano frasi come: «Popolo italiano, la tua ora è suonata!» (Bollettino del CLN, Torino, 1945). La Resistenza fu anche questo: risemantizzare il popolo, ridefinire l’Italia. L’Accademia della Crusca, in un recente studio del 2023, sottolinea come la lingua della Resistenza fu essenziale, diretta, spesso dialettale, e contrapposta alla retorica enfatica e ottocentesca del fascismo.
Anche Radio Londra giocò un ruolo cruciale. La voce di Harold Stevens, con accento britannico e parole misurate, era il suono dell’antifascismo. Le trasmissioni clandestine usavano un linguaggio che univa ironia e sobrietà: basti pensare alla frase “La neve non è più bianca”, usata come messaggio in codice per attivare insurrezioni locali.
Nel 1944 nacquero in Italia zone temporaneamente liberate: Montefiorino, l’Ossola, la Carnia. Qui si sperimentò la democrazia. Le costituzioni provvisorie scritte in quelle settimane contengono un lessico nuovo: “eguaglianza”, “solidarietà”, “lavoro”, “scuola”. Queste parole, come semi, germoglieranno nella Costituzione.
Il Referendum del 2 giugno 1946: l’Italia sceglie la parola "Repubblica".
Dopo la Liberazione, l’Italia si trovò davanti a un bivio. Monarchia o Repubblica? Il 2 giugno 1946 si tenne il primo referendum istituzionale a suffragio universale. Per la prima volta votarono le donne, e già questa fu una rivoluzione linguistica: l’introduzione della "cittadina" nel vocabolario civile italiano. I titoli dei giornali del 3 giugno parlavano chiaro: “L’Italia ha detto sì alla Repubblica”. Da lì a poco, fu eletta l’Assemblea Costituente. I verbali stenografici delle sedute, conservati e pubblicati dalla Camera dei Deputati, mostrano un linguaggio sobrio, ma vibrante. I Costituenti, da Calamandrei a Terracini, da La Pira a Togliatti, parlavano in modo semplice, ma denso di valori. Si interrogavano sulle parole: è giusto dire “Repubblica fondata sul lavoro”? Oppure “fondata sulla dignità”? La scelta del lessico fu sempre consapevole.
La lingua della Costituzione: una sintassi della democrazia.
Il testo costituzionale, approvato il 22 dicembre 1947 con 453 voti a favore, fu redatto da una commissione di 75 membri. Come ricorda De Mauro, la Costituzione è costruita con un lessico elementare, eppure gravido di significati. 9369 parole, 1357 vocaboli distinti, e oltre il 90% di uso comune. Non è solo una scelta tecnica. È un’operazione politica e culturale: fare della Costituzione una parola per tutti. Un linguaggio non verticale, ma orizzontale. Non tecnico, ma inclusivo. Non distante, ma vicino. Come ha scritto Luca Serianni, «La Costituzione italiana rappresenta un caso esemplare di equilibrio tra solennità e chiarezza».
Ecco perché oggi, 2 giugno, Festa della Repubblica, non celebriamo solo una forma di governo, ma una nascita. Quella di una lingua nuova, una lingua di popolo, costruita sulla dignità, sull’eguaglianza, sulla libertà.
Una lingua, finalmente, di tutti.
Buona festa, cara Repubblica.
Autore
Alessandro Mainolfi