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La notte è lunga per l’insonne che fissa il buio nella parete. Nello strapiombo, tra quelle crepe, dietro l’oscurità impenetrabile cade, come se il muro lo risucchiasse da sotto le coperte.
Per me sei come la campagna durante la primavera: quando intorno a casa mia le spighe si fanno alte e le margherite invadono il giardino: fissano il cielo.
Ho avuto pensieri violenti contro il mio corpo, contro questo pianeta di cartone che mi fa stringere nella giacca, mi segue fino alla fine del mondo e mi tocca la spalla, per poi fuggire via non appena mi volto. L’esistenza: è proprio lei che si prende gioco di me.
Per me sei come la campagna durante l’inverno: quando intorno a casa mia l’erba è color carro armato e i campi sono pieni d’acqua. Raccogli traumi di stagioni passate nel cuore della tua terra. E la amo perché è bucata, perché ha superato i temporali.
Ho pensato di fermarmi a piangere l’altro giorno quando, andando in auto, ho acceso il cellulare e non ho visto una tua chiamata. L’autostrada era intasata e avevo voglia di compagnia. È stato doloroso vedere le macchine superarmi quando poi, preso dal panico, ho accostato in una piazzola di sosta e ho bestemmiato. Ho maledetto il cielo, il tuo nome e la tua voce. E ho tuonato come Giove parole d’ingiuria contro il profumo del tuo corpo, l’odore delle tue labbra.
Per me sei come la campagna quando andavo a fumare erba di nascosto: mi perdevo dentro la notte con il cuore che mi esplodeva, il freddo dentro ai piedi e le strade tutte uguali. E in fondo a te, dopo essermi perso nel buio, inciampando in un pozzanghera, trovavo la via di casa.
Per me sei la campagna di notte quell’unica volta che, nel mio giardino, in un angolo della siepe, danzavano due lucciole sotto la luna. E io, come gli uomini che cercano un senso nelle cose, ti ho pensata e ripensata e mi struggevo nel cercarti. Nel guardare il mio telefono e fissare quelle due lucciole. E la luce artificiale e la natura incontaminata. E le tue parole dentro il buio quando mi svegliavo dopo un incubo e accarezzavi la mia testa: sapevo di non dover essere un Uomo, con te.
Mi chiedo se sono rumorosi i miei battiti per gli altri, come per me: se è così faticoso, anche per loro, camminare: strascinarsi avanti nelle vie dell’università pieni di pensieri e di mancanze, di vuoti e di pienezze difficili da contenere. Mi chiedo se sei te che ho visto passare ridendo con un altro, o era una donna qualunque nella fitta folla in piazza. O forse è una crisi d’asma e il punzecchiare dentro agli occhi.
È l’alba che mi assiste adesso e la crepa, visibile dalla fioca luce rosa che arriva dalla campagna, mi fa pensare che forse è il muro l’unico a capirmi. E come lui io vorrei essere fermo a prendere la tua luce, e poi la notte adombrato nel tuo buio, per poi, ancora, svegliarmi nella tua luce e ricordare che si può amare la campagna senza uscire dalla propria stanza.
Autore
Antonio Mainolfi