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1. Non è una questione linguistica, è una questione politica e di necessità.
Da qualche anno ormai anche in Italia è arrivato, ed è stato discusso, il concetto di “linguaggio inclusivo”. Per quelli che ancora non avessero avuto modo di informarsi sull’argomento cercherò di fornire una spiegazione adeguata: con “linguaggio inclusivo” si intende una necessità dichiarata da alcune minoranze appartenenti al gruppo LGBTQIA+, quella di potersi sentire incluse in un linguaggio, specialmente quello della lingua italiana, estremamente binario.
Questa necessità può sembrare in un primo momento superficiale ma, come vedremo anche successivamente, può avere ripercussioni molto concrete ed importanti non solo di tipo psicologico e identitario. Finora si sono trovati vari metodi per sopperire a questa necessità: dalla completa eliminazione della lettera portatrice del genere (es. Bambin, ragazz ecc…), dall’aggiunta di una x (es. Bambinx, ragazzx), dalla u (es. Bambinu, ragazzu) sino alla tanto criticata schwa (es. Bambinə, ragazzə). L’opinione pubblica non si è mai espressa in modo troppo favorevole nei confronti di queste nuove desinenze pronominali, esprimendo il loro dissenso principalmente in due modi: da una parte troviamo chi decide di ignorare il problema, definendo queste richieste e queste necessità come “un capriccio”, sminuendo o negando in tronco l’importanza che il “linguaggio inclusivo” ricopre all’interno di una società variegata e complessa; e dall’altra c’è chi solleva il problema da una questione personale o morale ad una questione meramente linguistica, sostenendo che un cambiamento nel linguaggio non può essere imposto dall’alto sulla popolazione, e che soluzioni come la “u” o la “schwa” non appartengono ai fonemi tipici della lingua italiana, e che, di conseguenza, non possono essere utilizzati.
Analizziamo dunque queste due argomentazioni. La prima (cioè che il concetto di “linguaggio inclusivo” sia “un capriccio”) sembra una semplice chiusura a riccio nei confronti di una novità, senza che neanche si manifesti la volontà e la capacità di approfondire l’argomento. In altri termini, appare come una semplice reazione tradizionalista fine a se stessa. A questo punto può sembrare spontaneo declassare d’importanza questa “non opinione”, che, invece, ritengo molto importante, perché smaschera la concezione di fondo della maggior parte dell’opinione pubblica nei confronti del “linguaggio inclusivo”: ossia il razzismo di fondo (questo argomento verrà affrontato con maggiore completezza nel secondo paragrafo). Per quanto riguarda la seconda argomentazione (e cioè quella secondo cui il “linguaggio inclusivo” presuppone dei cambiamenti linguistici inaccettabili da inserire nella lingua italiana) quello che mi sento di dire è questo: il linguaggio è sempre cambiato nel tempo, e non sempre nello stesso modo, a volte è stato cambiato dall’alto e altre volte a partire dall’iniziativa delle persone. In questo contesto non può neanche valere la tanto usata frase: “Quello del linguaggio inclusivo è un fascismo, è un'imposizione dall’alto”. Da quando una minoranza impone dall’alto? La necessità dell’uso del “linguaggio inclusivo” da parte di una minoranza non può essere paragonata all’uso che fece il fascismo del linguaggio, poiché in quel caso era una dittatura ad imporre un linguaggio, senza alcun tipo di motivazione che non fosse puramente propagandistica. In questo caso si tratta di persone spesso marginalizzate, che chiedono ai piani alti della società di essere viste e rispettate.
Tornando all’apparente questione linguistica è anche opportuno far notare che il fonema “schwa” esiste in alcune sfumature dialettali della lingua italiana, come il dialetto siciliano, calabrese e pugliese. Siamo così veloci nel definire i dialetti come parte dell’italianità e della nostra tradizione, eppure, quando alcuni elementi fonetici di questa tradizione vengono applicati a concetti “nuovi”, diventano qualcosa di totalmente estraneo a questa stessa tradizione. È davvero una questione linguistica o è più una questione politica? È lo “schwa” il problema o l’uso che ne verrebbe fatto? È davvero la lingua italiana che vi sta a cuore o non concepite la possibilità di ampliare le sfumature di una lingua per il benessere di tutte le persone che quella lingua la condividono e la parlano? Si capisce come chiunque si aggrappi a motivazioni di tipo linguistico non si muova per un amore infinito nei confronti della lingua italiana, ma piuttosto per un desiderio di detenere il potere e per una noncuranza di fondo rispetto alle necessità di tutte quelle persone che richiedono l’uso del “linguaggio inclusivo”.
2. Problema alla base
Ma, questa noncuranza e questo desiderio di detenere il potere sulla lingua a discapito di persone che vengono identificate come nemici, da cosa nasce? Per capirlo, è necessario fare un passo indietro, analizzare il problema alla base e definirne il contesto. L’Italia, come anche gran parte del mondo, è ancora immersa in una cultura basata sul binarismo di genere. Con “cultura basata sul binarismo di genere” intendo indicare un concetto molto semplice: tutto ciò che ci circonda ha un genere. Non solo da un punto di vista grammaticale o pronominale, ma anche da un punto di vista di appartenenza: se dovesse capitarvi di entrare in un negozio, noterete che tutti i giochi per i bambini maschi affrontano vari argomenti ritenuti dalla società come maschili, e quelli per le bambine altri ritenuti dalla società come femminili. Ancora prima di nascere impariamo che noi siamo di un genere preciso, e come lo capiamo? Da un colore: se il fiocco è blu o rosa. Siamo così intrisi ed inzuppati in queste logiche e dinamiche sociologiche, che ormai non ce ne rendiamo più conto, e chi capisce tali logiche, accorgendosi di come siano una gabbia piuttosto che un’oasi dove ricercare l’apparente approvazione altrui, viene additato come “alieno” o “affetto da qualche patologia”. Occorre ricordare che la disforia di genere - il “transgenderismo”, per capirci, sebbene sia un termine antiquato e in disuso - non è una patologia, tanto meno ogni aspetto del non binarismo di genere. Dunque è opportuno notare e tenere a mente che, quando si parla di questi argomenti e di questo gruppo di persone, è in atto (consciamente o inconsciamente) un forte stigma, pregno di pregiudizi e di opinioni ereditate dalla nostra cultura sociale e mai più rimesse in discussione. È proprio in questo contesto che prendono piede e trovano linfa vitale le motivazioni dei linguisti contrari al linguaggio inclusivo. E molte di queste persone non sono mosse da un omotransfobia manifesta e conscia, ma da un meccanismo simile a quello che viene chiamato “razzismo strutturale”: una forma di razzismo che, perpetrato per numerosi decenni, diventa elemento strutturale della società che lo attua, prendendo spesso forma in comportamenti spontanei e privi di intenzione razzista, quasi dimenticando lla loro vera origine - e questo contribuisce enormemente a mantenere vivo quel razzismo inteso come non uguaglianza sociale e politica. Come in una società in cui sia presente il razzismo sistematico verso la popolazione nera sembrerebbe molto improbabile, scomodo e innaturale essere governati da un nero, in una società in cui sia presente lo stesso tipo di razzismo anche nei confronti delle persone LGBTQ+ appare improbabile, scomodo e innaturale implementare una sfumatura del linguaggio a loro favore.
3. Problemi di struttura
L’analisi del problema che sta alla base era necessaria da presentare, sia per essere vista come causa dell’ostilità nei confronti del “linguaggio inclusivo”, sia per poter parlare, nel presente paragrafo, di come questi problemi di base abbiano ripercussioni molto più concrete su problemi strutturali del nostro Paese e non solo. Tutto parte dalla F o dalla M che troviamo in ogni documento d’identità. Un primo ostacolo che le persone trans o non binarie si trovano ad affrontare in relazione a questo è la seguente: nel sistema sanitario italiano, quando una persona è indicata con la lettera M, è trattata come una persona munita di pene; quando indicata con la lettera F, dotata di vulva. Questo crea disagi nei confronti delle persone che hanno affrontato il percorso di transizione legale dei documenti, ma che hanno scelto di non affrontare un’operazione che cambiasse anche i loro genitali, portando persone trans con la lettera M ma con la vulva ad accedere con fatica a un controllo, per esempio, ginecologico o relativo ad altre parti del corpo che per il sistema sanitario italiano non rientrano in quella M sul documento d’identità. Questo stesso ragionamento avviene anche per persone che sulla carta d’identità hanno la lettera F, ma sono dotate di pene, che sono poste davanti a gravi difficoltà per accedere ad un controllo alla prostata. A questo punto, credo che sia necessario chiedersi concretamente a cosa serva avere una M o una F sul nostro documento d’identità.Sarebbe molto più sensato avere un documento che si concentri sulle nostre specificità, come il gruppo sanguigno, oppure che riporti semplicemente il tipo di organo genitale, senza affibbiare loro un genere. Esistono anche altre difficoltà concrete e strutturali, mentre quella presentata era solo un esempio - e ,tra l’altro, il più semplice da spiegare. È importantissimo, però, capire come ogni argomento e ogni sfumatura puramente teorica che prende forma nel linguaggio siano la causa e le fondamenta su cui si basa questo tipo di discriminazione decisamente più concreto.
4. Abrasione necessaria
Il cambiamento può e deve partire dal linguaggio. Dentro la difficoltà nel trovare la volontà di ampliare il linguaggio, è nascosta una grave e forte discriminazione nei confronti di un certo gruppo di persone, che vengono deliberatamente ignorate. Finché il linguaggio non riuscirà ad incorporare tutte le sfaccettature delle persone che lo parlano, quelle non incluse rimarranno invisibili. La lotta linguistica da affrontare è inevitabilmente abrasiva. Deve essere tale. Deve dare fastidio. Occorre capire che, se si è a favore di una lingua che includa tutti, bisogna ricorrere a mezzi e neologismi linguistici che inizialmente daranno fastidio, quel fastidio tipicamente legato ad ogni innovazione. E bisogna avere il coraggio di dare fastidio. Avere la consapevolezza che questa è una battaglia che non si può vincere solo ricorrendo alle istituzioni, ma che deve essere combattuta dal basso, da tutte le persone che hanno compreso ed empatizzato con questo articolo e che inizieranno a prestare un po’ più di attenzione al linguaggio con cui scelgono di esprimersi.Quanto più questo numero di persone crescerà, tanto più questa novità diventerà abitudine e più sarà difficile da ignorare. L’obiettivo non è distruggere il modello binario, ma arricchirlo di altre sfumature che, finalmente, avranno l’opportunità di esistere.
Autore
Desirèe Tintori