5
Erano ore che eravamo chiusi là dentro. L’aria iniziava a farsi pesante, il silenzio opprimente. Non era la prima volta che ci trovavamo in una simile condizione. Il freddo sembrava penetrare nelle ossa, ma le coperte non erano abbastanza per tutti: si davano ai neonati e agli anziani. Gli altri si stringevano tra loro cercando di scaldarsi vicendevolmente. Io tenevo Pietro sulle gambe. Ero seduto su una cassa di legno chiusa e lui stava coricato alla mia destra, stringendomi la vita con le braccia, come fossi stato il suo salvagente. Era terrorizzato, nonostante ci fossimo già passati altre volte. Qualcuno, in quel salone sotterraneo, stava avendo un attacco di tosse. Una giovane donna, con i capelli mori raccolti in due lunghe e spesse trecce che le ricadevano morbide ai lati del viso, chiese a voce alta dell’acqua: «Mia madre rischia di soffocare, vi prego!». Dall’altro lato del sotterraneo si alzò un braccio: «Puoi prendere questa», un anziano signore con una bombetta in testa stringeva una fiala d’acciaio. Passò di mano in mano e arrivò alla donna, che riuscì a placare la tosse convulsa della madre. La stretta di Pietro ai fianchi non si era allentata un attimo. Qualcuno da qualche parte riusciva a dormire, qualcun altro sommessamente russava. Alcune giovani madri cullavano i figli tra le braccia, una di loro sussurrava una ninna-nanna che risuonava come un’oasi di silenzio tra i fragori delle bombe.
L’allarme antiaereo era scattato nel cuore della notte. Il frastuono delle sirene mi aveva svegliato con un tuffo al cuore; avevo in fretta infilato le scarpe poste ai piedi del letto e preso per mano Pietro che già aveva le lacrime agli occhi dalla paura. Solo il tempo di prendere giacca e coperte che l’aria si fece vibrante di bombe. Riuscimmo a raggiungere il rifugio solo perché era la paura di morire che ci spingeva avanti. O chissà quale forza di volontà. La paura, la stessa nostra, si leggeva su tutti i volti consumati e stanchi dei vicini di casa. La fame aveva scavato loro le guance e la stanchezza aveva spento la luce dei loro occhi, vacui. Qualcuno pregava, quella notte. Un’anziana si sfregava tra le mani un rosario, mormorando una litania tra le labbra. Il freddo di quelle pareti ghiacciava mani e piedi, nuvole di fiato uscivano dalle bocche crepate dall’aria secca. «Pietro…» gli sussurrai all’orecchio. Lui ebbe un sussulto, il viso nascosto nella mia pancia. Una bomba esplose vicino al rifugio. Dalle fessure del soffitto cadde uno spesso strato di polvere e tutto tremò attorno a noi. La piccola lampadina appesa a un filo al centro del sotterraneo ondeggiò pericolosamente e la luce si affievolì, tanto da non permetterci di distinguere chi ci era accoccolato accanto. Circondai istintivamente le spalle di Pietro con un braccio, non lo vedevo, ma sentivo il suo peso su di me e sentivo il terrore scuotere il suo corpo fino a fargli battere i denti. Strinsi forte gli occhi e pregai Dio, come la signora con il rosario, di non farci crollare il mondo addosso. Lo pregai di aprire i suoi di occhi e di guardare bene perché qui, qui sotto eravamo tutti ridotti in miseria. L’ombra di ciò che rimaneva della comunità cittadina, consunta, consumata da un tormento provocato da altri.
I neonati strillarono di paura stretti ai seni delle madri che con il terrore a occupargli le pupille li stringevano a loro volta tentando di farli sentire al sicuro. Quella bomba aveva risvegliato il timore della morte, assopito dal sonno sui nostri volti, tormentati da settimane dalle sirene antiaereo. La lampadina sfarfallò per qualche tempo prima di riaccendersi e illuminare debolmente gli sguardi persi di coloro che in un tempo diverso erano stati i miei vicini, i miei insegnanti, i miei amici, le mie amiche, la mia famiglia. Li osservai e per un momento mi parvero estremamente sottili, come se una folata di vento avesse potuto spazzarli via senza sforzo. Piegati su loro stessi, tentavano in ogni modo di non pensare a ciò che avveniva qualche metro sopra. «Ho paura» mi confessò Pietro, come se non fosse stato abbastanza chiaro dagli occhi rossi e il viso rigato di lacrime: «io non voglio mica morire» piagnucolò tra sé e sé. Nessuno dei presenti vorrebbe morire, pensai, nessuno se la merita una morte del genere. «Pietro pensa a casa» gli consigliai.
Il gioco funzionava così: quando Pietro mi diceva di aver paura gli consigliavo di pensare a casa e lui iniziava a elencare le cose che gli piacevano di casa; le cose che gli ricordavano casa; cosa gli mancava di casa. Poi mi chiedeva: «Tu quando pensi a casa, a cosa pensi?» e io gli rispondevo. Non che il gioco fosse divertente, ma era un modo per tenere impegnata la mente lontano dalle bombe, lontano dalla paura, lontano dal freddo che ci faceva tremare e ci faceva stringere uno all’altro in cerca di una tenue certezza, un piccolo lume di speranza che avrebbe potuto allontanare per un attimo quel fetore di morte, aleggiante sopra le nostre teste, al di là dello spesso strato di mattoni del soffitto di quel misero buco scavato nella terra. Lui elencava sempre le stesse cose e nonostante gli dicessi di sforzarsi di pensare a qualche cos’altro lui replicava che non aveva bisogno di pensare ad altro, gli bastavano quelle, gli davano sicurezza. E così dicendo rassicurava anche me. A volte, se avevamo altri bambini intorno anche loro giocavano con noi e gli elenchi potevano prolungarsi per ore, senza che nessuno si azzardasse a interrompere, nemmeno gli adulti, nemmeno gli anziani. Solo i rumori delle bombe non mancavano mai di dire la loro.
Ogni volta che Pietro inizia il suo elenco lo ascolto. Lo ascolto sempre, senza stancarmi mai, perché nei suoi ricordi ci sono anche io. I suoi ricordi sono anche i miei. Ciò che manca a lui, inevitabilmente manca anche a me. Manca a tutti: adulti e bambini. Manca a tutti giocare a pallone col fratello e gli amici di scuola nel campetto dietro casa, che chissà se c’è ancora; manca a tutti sentire il profumo delle torte della mamma che si diffondono per la casa, chi se lo ricorda più il sapore dei dolci? Manca a tutti ridere alle battute dei comici in televisione quelle sere in cui il papà permetteva di stare alzati un po’ più del solito; non perché a tutti manchi la televisione, ma perché a tutti manca ridere a crepapelle con la famiglia, con gli amici. A tutti manca la vita, quella vera, quella libera, la vita di sempre. Ora sembra così lontana, un ricordo evocato dalle voci flebili dei ragazzini che tentano in qualsiasi modo di aggrapparcisi, per non dimenticarsene, per non lasciarsi inghiottire dalle ombre proiettate dalle lampade a petrolio del rifugio antiaereo, ma per ricordarsi che la luce vera, la luce viva è quella del Sole che illumina tutto e scaccia via i mostri sugli aeroplani che con un semplice gesto cancellano il tepore della vita.
Una bambina, che credo fosse stata compagna di classe di Pietro, si era accoccolata ai nostri piedi e ascoltava. Ascoltò fino a quando Pietro non terminò il suo elenco. Poi mi guardò con gli occhi che le brillavano di ricordi, chissà cosa le era venuto in mente. Così posai una mano sulla spalla di Pietro, sottintendendo aspettasse a pormi la sua domanda. Alzai le sopracciglia, invitandola a parlare: «E tu Giovanni quando pensi a casa, che cosa pensi?» chiese con voce sottile. Un’altra bomba cadde facendo tremare i nostri cuori. La bambina, credo si chiamasse Teresa, si coprì le orecchie con le mani. Non sapevo perché mi avesse posto la domanda lei, Pietro sicuramente non si aspettava che il suo ruolo nel gioco gli venisse rubato e nemmeno io. Ma non si arrabbiò, infondo che ragioni aveva? Non ne aveva neanche la forza. Era semplicemente stupito. Un’altra bomba si abbatté sulla città: un’altra voragine che si apriva, un’altra ferita incurabile veniva esposta. Chiusi gli occhi e presi un bel respiro. Iniziai a parlare a intervalli irregolari, una bomba dopo l’altra:
«Io quando penso a casa penso a un prato immenso, immacolato, inondato dalla luce del Sole, dove poter correre. Correre e basta.» Teresa mi guardava con espressione accigliata, non capiva in che modo i concetti di corsa e di casa fossero correlati tra loro. Le sembrava non stessi rispondendo coerentemente alla domanda. Sapevo mica come si giocasse? «Anzi, non penso a un prato a caso», mi corressi, seguendo il filo dei miei ricordi più cari: «Penso a quel frutteto di arance che dal retro di casa nostra va su fino alla collina. Non è un frutteto ampio, però segue le pendici della collina. Il sentiero in ghiaia che lo attraversa si percorre con fatica nelle ore più calde del giorno, ci vuole la camionetta. L’ho imparata a guidare, io, la camionetta… con il nonno che mi teneva sulle ginocchia e mi gridava nell’orecchio perché tenessi ben stretto il volante. Mi ricordo il rosso della camionetta, ma niente aveva a che spartire con l’arancione delle arance. I filari di un verde così brillante e intenso da ricordare miriadi di smeraldi e quell’arancione, quasi rosso, che spesse volte sembrava brillare più intensamente del sole.» Trassi un profondo respiro. Tentavo di percepire il sentore d’arance tra quelle nuvole di polvere marcia. «Quel frutteto aveva un profumo così intenso da inebriare e intenerire anche il più burbero dei cuori… Sì, ecco, quando penso a casa mi viene in mente il frutteto di papà. Un prato verde e arancione dove posso correre per quanto tempo voglio e poi fermarmi senza avere la paura che una bomba possa centrarmi in pieno. Senza il terrore di avvistare un aereo in cielo, senza l’ansia di sentir suonare quel maledetto allarme antiaereo. Vorrei potermi fermare e arrivare sulla sommità di quella collina, che abbiamo dietro casa, e staccare un’arancia da un albero, annusarla, annusarne il profumo e realizzare che sono vivo, che quella arancia la posso mangiare senza la paura che qualcun altro me la possa fregare, perché sull’albero ce n’è abbastanza per tutti e quella che ho raccolto l’ho presa io ed è mia e non la devo a nessun altro. La posso mangiare tutta, con calma, spicchio dopo spicchio, magari anche coricarmi nel prato e schiacciare un pisolino. Vorrei avere la certezza di tornare a casa, una casa intera dove mio fratello la mia mamma e il mio papà mi aspettano a braccia aperte, in un quartiere intero, senza crateri di mattoni, fili di ferro e corpi senza vita. Per me casa è questo. È libertà potermi fermare su quella collina dopo una corsa e mangiare un’arancia.»
Autore
Erica Zambrelli