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LETTERA DEL 5 APRILE. “L’INFALLIBILE LEGGE DELLA VIOLENZA”
Caro amico mio, che ti stai imbattendo nell’impresa di leggere − sotto forma di prima lettera – queste mie assennate parole ma reputate dalla virtuosa folla come discorsi minacciosi e irragionevoli, è necessario che tu conosca senza ambiguità la mia ridicola condizione: in questo istante giaccio esanime sul suolo della mia stanza, senza riuscire a compiere nessun movimento o a formulare alcun pensiero razionale che non sia accompagnato da una lacrima colpevole o da un respiro soffocante, dal sapore amaro e deludente. Il fatto che oggi ti narro non è però finalizzato a spaventarti né tantomeno (ti prego di credere alla sincerità e onestà delle affermazioni che seguono) a rendere il tuo spirito integro simile al mio, tormentato e vulnerabile. La mia volontà infatti non risiede nella ricerca di conforto, bensì nella necessità di raccontare tutto ciò che i miei deboli sensi raccolgono, senza distinguere gli eventi piacevoli da quelli nefasti. Il vero limite (e quando questo verrà raggiunto ti prometto che smetterò di scriverti disperate lettere) è imposto esclusivamente dal bisogno di ricostruire l’interezza originaria della mia Anima, ora più che mai divisa in frammenti in cerca perenne di unità. Non mi dilungo oltre, eccoti la meritata storia di questa mattina…
Vi era un ragazzo giovane d’età ma che già portava sulla schiena il fardello gravoso della vita, la quale affrontava con rassegnata consapevolezza e maturità. Quest’ultimo, la cui completa identità rimarrà buia fino al ritrovamento di circa metà dei suoi frammenti smarriti, intraprendeva la propria indagine rimuovendo progressivamente gli elementi patologici che formavano le convinzioni più radicate nella sua interiorità: uno di questi era rappresentato dalla “normalizzazione e accettazione passiva” della violenza, la quale fino a quel momento considerava come una legge assiomatica e sempre trionfante, che non risparmia né mortali né dei, contro cui è del tutto vano battersi e resistere attivamente. Non riusciva ormai neanche più a distinguere lucidamente dove essa si manifestasse con precisione, seppur ritenesse di individuarla in ogni contatto e interazione sociale. Oggi, mentre egli osservava la solita quotidianità da una panchina che dava sulla strada principale di quel piccolo paesello, il suo sguardo venne catturato da una scena che descriveva perfettamente la superba natura dell’uomo: due amici dall’aspetto facoltoso e dall’apparente legame solido stavano discutendo sulla cifra minima in denaro che dovrebbe assumere una mancia per essere definita tale, che sarebbe poi stata concessa al proprietario del ristorante in cui avevano pranzato, poiché rimasti stupefatti sia dalla qualità degli alimenti che dall’efficienza del servizio. Allora i due uomini dibatterono a lungo, senza mai però risultare d’accordo l’uno con l’altro e, volendosi sovrastare con forza reciprocamente, giunsero entrambi alla conclusione di non offrire neanche un singolo centesimo. Uscirono da quel luogo offesi dalla “violenza subita”, accecati dall’orgoglio e rimasero immobili in silenzio fino a quando non videro due monete d’argento dimenticate sul bancone esterno da una distratta signora anziana, per i quali si azzuffarono con i loro gentili e delicati modi, all’insegna della reciproca prevaricazione. La lite, che sembrava non cessare mai, venne risolta proprio dall’intervento del giovane spettatore che, stufo e annoiato, esortò loro a porre fine a quella epica battaglia facendogli notare che tutto aveva avuto origine da un presupposto nobile, da un’intenzione generosa comune. L’esito che ne scaturì fu risolutivo: i due eroi finalmente si riappacificarono e tornarono ad essere nuovamente amici inseparabili, soltanto dopo però aver ferito con complicità il volto di colui che aveva osato impicciarsi nelle loro essenziali vicende. Il ventenne protagonista, che aveva ottenuto dalla sua azione solo neri lividi, aveva in tal modo anche eliminato dal suo spirito le prime tracce nocive e malate, affrontando valorosamente e senza rassegnarsi quei gesti di piccola violenza, figlia del sangue. Vissi così la mia resistenza contro la vera Regina della storia, seguendo l’exemplum offerto da quei modelli storici ed etico-morali che con coraggio si ribellarono e resistettero attivamente alla crudeltà dell’essere umano e alla brutalità dei loro tempi, dagli echi remoti, ma purtroppo ancora adesso dominanti e tirannici.
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Grati lettori e grate lettrici, il brano che avete appena letto rappresenta la prima lettera del romanzo epistolare che a puntate, periodicamente, si realizzerà mensile dopo mensile e che si completerà definitivamente nel momento in cui il protagonista, dall’identità finale per ora ignota, riuscirà a recuperare tutti i frammenti della propria Anima, raggiungendo l’equilibrio e il senso interiore tanto desiderato da ognuno di noi. L’impresa verrà ostacolata inevitabilmente da intricate sfide e numerosi dilemmi che la sensibilità del giovane dovrà sciogliere giorno dopo giorno, emozione dopo emozione. La sua coscienza crederà di star seguendo un percorso limpido e lineare ma, progressivamente, maturerà la consapevolezza che qualunque tipologia di scelta essa compirà, tra tragici imprevisti e svolte enigmatiche, ne segnerà l’inesorabile destino. Il tema centrale che accompagna tali parole è la “Resistenza” (in occasione del venticinquesimo giorno di questo mese), la quale può essere interpretata in qualsiasi maniera e descritta in ogni sua accezione o sfumatura. Si inseriscono in questo clima anche i due componimenti poetici che ho scelto di pubblicare: il primo, “l’Avidità” mette in luce una dinamica connaturata all’interno dell’essere umano e dei suoi meccanismi desiderativi, alla quale è complicatissimo, se non realmente impossibile, resistere. Il secondo invece descrive la resistenza esercitata da ognuno di noi di fronte a delle perdite significative, a delle mancanze difficilmente colmabili (in questo caso rappresentate dalle relazioni sociali, di qualsiasi tipologia o genere, che possono rivelarsi sia profonde che superficiali, ma comunque ritenute essenziali e formative). L’interpretazione è assolutamente soggettiva e ognuno è libero di confrontare questi versi con i propri pensieri, le proprie idee ed esperienze personali, consentendo così il massimo grado di immedesimazione e di impatto emotivo possibile…
L’AVIDITA’ TRACCE REMOTE DI UMIDI VINCOLI
Non vi è tramonto alcuno in tal prigione All’estremo nascosi i teneri lai
e le catene, esplorando ogni età, che van a librarsi a toni d’inchiostro:
rendon servitù al pregio di Ragione: per prima l’amico, smarrito oramai,
Lume in aspra veste inganna Fedeltà. come riflesso di un viaggio non nostro.
Cieco fa l’uomo e Lealtà divien Crimine Lo segue l’unione d’infantil gesti
giunge da Plauto a tragedia Euripidea che fan del seme distese di foglie
tal virtù, sotto forma di libidine, cadute sul suolo, in tuoni funesti,
e offusca Ingegno, come avvenne a Medea. una ad una, come immagini spoglie.
Perciò il mondo è spinto a guerre e a rovina Cito anche gli affetti lasciati da poco,
e riceve l’inchino di Felicità, fitti e vicini da rigida fune
rendendo l’arbitrio da atto a pedina. divenuta per me terra di fuoco.
Vittima è la donna, uomo e verità E infine il vermiglio di sangue comune
Menzogna sembra ora stella divina: con medesmo istinto richiamo e invoco:
O peggior vizio, sei tu Avidità! a mostrar son giunto di non essere immune.
Autore
Samuele Castronovo