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Caro Rick, è da molto tempo che non ricevi mie notizie. Ti porgo le mie sincere scuse, ma la società frenetica e supersonica in cui viviamo ci impone di ragionare di questioni futili e superficiali, legittimandone l’esistenza e addirittura ponendo quest’ultime come obiettivi, scopi e finalità da perseguire anche al costo di sacrificare il nostro onore, la nostra etica, i nostri valori… insomma noi stessi. Non c’è più posto per la filosofia, il pensiero teorico e l’immaginazione, essendo considerati ormai dai più come sforzi anacronistici, irriti, vuoti, poiché privi di fondamento pragmatico e concreto, come se la teoria derivasse per necessità dalla pratica e non viceversa.
Ma io credo più di ogni altra cosa, prezioso amico mio, nelle infinite potenzialità della parola, unico strumento in grado di ondeggiare tra le nostre radici e la contemporaneità, il solo a renderci ancora umani, seppur oggi il suo utilizzo venga estremamente limitato e nascosto con l’inganno dalle più elevate autorità. Adesso però torniamo a noi e lasciamo che siano altri a discutere e a riflettere su certi argomenti, malgrado lo stesso ventenne, di cui mi accingo a narrare la storia, nella sua ultima avventura abbia smarrito proprio il dono della parola, un’arte che fino ad allora aveva sempre esercitato con maestria e straordinaria padronanza. In seguito all’acquisizione di certezze e identità, raccontate nella precedente lettera, vi fu infatti un episodio che costrinse il nostro protagonista a fare un passo indietro, a modificare l’intera visione sulla sua realtà, che pretendeva ormai di conoscere e prevedere senza alcun impedimento…
Mentre egli osservava all’aria aperta il moto dell’universo attraverso la manifestazione del sole e delle stelle, che si alternavano equamente durante tutte le giornate, i suoi sensi colsero un leggero profumo, ma violento alla vista: si trattava di fumo. Spinto dalla curiosità, decise allora di avvicinarsi e si accorse che la causa di tutto era rappresentata da un’angelica figura (come se fosse un’apparizione miracolosa dai toni sfocati e indefiniti) che, essendo adagiata di spalle sul sottile manto erboso, consentiva di intravederne soltanto la chioma folta, mossa e delicata, pennellata da sfumature ambrate simili a frammenti cristallini del quarzo fumé. Il giovane, che camminava verso di lei silenziosamente, credeva di non essere visto e, stimando che la propria presenza avrebbe potuto interrompere la misteriosa attività ch’ella svolgeva, ragionava a lungo se procedere o tornarsene indietro…
Dubbioso di sé stesso, soffocato dalle sue insicurezze (che in quel momento riaffiorarono più che mai) e timoroso di risultare indiscreto e inopportuno, si persuase ad abbandonare la via che aveva spontaneamente intrapreso; scelta che venne però compromessa da un cenno di saluto della fanciulla, che, con un movimento improvviso, volse gli occhi verso il nostro protagonista. La ragazza invitò il ragazzo ad unirsi all’impresa che stava cercando di compiere parzialmente impedita da una sigaretta inforcata tra le due dita della mano sinistra, ossia quella di «noverar le stelle ad una ad una». Il ventenne accettò la richiesta, ritenendo però erroneamente che la sua decisione non fosse frutto della propria intenzionale volontà, bensì che fosse dovuta al mostrare cordialità e gentilezza. I due si trovavano ora seduti fianco a fianco e il ragazzo, con ritrovato coraggio, ma senza ancora guardarla nel volto, le chiese come si chiamasse e cosa facesse tutta sola nel bel mezzo della notte. Ella però, accorsasi immediatamente del tenero e insicuro atteggiamento che il suo interlocutore esibiva, decise di ignorare le domande, imponendo un dialogo fatto di reciproci sguardi. Il giovane, allora, con estrema fatica fissò gli occhi su di lei e le fece le stesse domande (e queste furono le ultime parole che riuscì a formulare in quel primo incontro). La donna, che si chiamava A*****, raccontò tutta la sua storia e il motivo per cui si trovasse in quel luogo, in quel preciso momento della giornata. Ma questo avrà il suo degno spazio in un’altra lettera. Ciò che importa adesso, mio prezioso Rick, risiede nel fatto che l’uomo di cui ti sto parlando, durante tale confronto, non poté fare altro che ammirare e contemplare la donna che aveva di fronte a sé, (come se poi non ne avesse mai viste, di donne) e finalmente la sua identità, riflettendosi negli occhi di A*****, si rivelò in tutta la sua bellezza: Il suo nome era Umas, i suoi riccioli color ebano impreziosivano gli occhi immensi, i cui toni competevano con i tratti cerulei del cielo, e le gote, attraversate da cicatrici e ferite invisibili, confluivano in labbra rosse e sottili, celanti un sorriso autentico ma ancora incapace di liberare pienamente sé stesso. Umas, di fronte a tale rivelazione, non sapeva se essere lieto o terribilmente spaventato, ma ciò che lo tormentava maggiormente era la sensazione ingovernabile che provava mentre A***** si esprimeva, attraverso gesti soavi, come se con una carezza fosse in grado di muovere l’intero ordine delle cose. Egli sentì che nel suo cuore era entrato con prepotenza un ulteriore frammento, cruciale per la futura ricostruzione dell’integrità della sua Anima, dalla natura però ancora enigmatica e pericolosa, capace di sconvolgere del tutto l’equilibrio interiore tanto bramato (scopo ultimo di questo romanzo epistolare, il cui raggiungimento non è una certezza). Umas si trovava quindi davanti a un’ardua scelta: accogliere la tempesta nel proprio petto o ignorare l’agitazione che lo rendeva umano; non sapeva se ritenersi pronto e meritevole di amare nel modo più onesto o, al contrario, se l’odio e la sofferenza che aveva accumulato sin dal principio gli impedivano di esercitare il dono e la virtù più nobile mai offerta all’umanità. Alla fine, scelse la strada più difficile. Scelse di dimostrare di essere degno di amare, conoscendo però perfettamente la sofferenza che avrebbe ricevuto e sapendo bene che tale decisione non avrebbe mai dovuto limitare la libertà, la volontà e la dignità di cui la donna di per sé godeva. Sebbene sospettasse che probabilmente non l’avrebbe mai più incontrata, decise di custodirne la memoria e l’infinita bellezza realizzando poesie che ne rispettassero l’onore e il valore.
Siamo giunti al termine di quest’altro giorno, caro Rick, e ti ringrazio sempre per la comprensione e la sensibilità che mi porgi gratuitamente. Credo che la vicenda odierna di Umas dovrebbe rappresentare un modello eterno per tutti noi: amare è ciò che ci rende umani, è ciò che realmente siamo, ma dobbiamo con umiltà e maturità riconoscere se e quando siamo realmente degni di farlo. Il vero problema è che tutti noi, uomini e donne, crediamo di meritare l’amore, di riceverlo e di concederlo. Ma se nemmeno riusciamo a definire con lucidità e precisione che cosa veramente esso sia anche solo per noi stessi (nessuno in nessuna epoca storica, infatti, ci è mai riuscito in modo esaustivo e universale), come pretendiamo di avvalercene in modo puro e leale? Fino a che punto siamo disposti ad arrivare pur di “giustificare” quello che solamente crediamo sia amore, per noi e per chi scegliamo di amare? Con quali criteri distinguiamo un amore giusto da uno sbagliato ed eventualmente, ce ne accorgiamo in tempo?
La soluzione risiede in una sfida costante con noi stessi, ossia quella di dimostrare di essere degni di amare e di essere amati, e, qualora non si fosse ancora pronti, riconoscerlo, accettarlo e rinunciare, prima di imbattersi in tutto ciò che è opposto all’amore, in violenza e odio sotto mentite spoglie. Bisogna conoscere la possibilità che tutto possa avere una fine, che le proprie aspettative vengano disilluse, che esista la sofferenza, anche e soprattutto in quest’ambito tutt’altro che prevedibile, e accettarlo. Bisogna avere il coraggio di amare, il coraggio di essere umani.
Autore
Samuele Castronovo
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