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Siamo abituati a considerare passato e presente come due enti separati: uno dietro, l’altro davanti. Troppo spesso consideriamo la Storia (quella con la S maiuscola) come un treno che ci porta da un punto A a un punto B. Durante il viaggio, ci dimentichiamo da dove siamo partiti e pensiamo solo alla destinazione che ci aspetta, proiettati un po’ sul presente e un po’ sul futuro, ma mai sul passato. Certo, ogni tanto un tuffo nel passato lo facciamo: studiamo, ricordiamo, ammiriamo o disprezziamo i testi e le azioni di uomini e donne; ma fino a che punto tutto ciò si sedimenta dentro di noi? È come se ci fosse sempre un divario tra quello che è stato fatto e quello che facciamo. Eppure il passato comunica sempre con il presente, anche quando questo non vuole ascoltare. E lo fa da sempre, addirittura dal V secolo a.C. La società greca ci appare a volte molto distante dalla nostra, così involuta per certi aspetti e troppo sognante per altri, ma è solo l’apparenza: abbiamo più cose in comune con la loro cultura di quanto non immaginiamo. C’è una tradizione bizzarra che si è sviluppata proprio ad Atene e che portiamo avanti anche oggi (forse, purtroppo, un po’ a fatica): il teatro. Con questo strumento generazioni intere di popoli sono riuscite a diffondere pensieri, idee, a condannare le ingiustizie, a riflettere sul dolore e sulla gioia, ma soprattutto a raccontarsi come società. Il teatro è da sempre uno spazio di riflessione che permette di indagare l’essere umano da prospettive sempre nuove. Lo fa ancora oggi, raccontando la nostra società, ma lo fa anche usando come specchio le società passate. Quest’anno al Teatro Due di Parma si è tenuta una breve rassegna incentrata su alcuni importanti miti greci: Cassandra di Elisabetta Pozzi, MedeAssolo di Valentina Banci (ispirato alla Medea di Seneca, autore latino che riprende il modello greco), Tragùdia di Alessandro Serra (che racconta la storia di Edipo e della sua maledetta stirpe), Le Troiane di Carlo Cerciello (con protagoniste le eroine tragiche Elena, Cassandra, Ecuba, Andromaca) sono gli spettacoli coinvolti. Tutti e quattro in scena durante il mese di febbraio, hanno regalato al pubblico delle riflessioni che non si fermano a guerre e sofferenze lontane, sbagli che non si devono ripetere, ma a disgrazie che oggi purtroppo ci sono molto vicine. Uno degli spettacoli messi in scena è, come già detto, quello che vede come protagonista un’eroina sola e abbandonata nel proprio dolore. E noi, Cassandra, vorremmo rivolgerci proprio a te. "Come si fa ad essere cosi ciechi?", ripetevi convulsamente, prima con tono pacato, poi con voce tremante, spezzata. Ci hai lasciato cosi, abbagliati, pieni di incertezze, impauriti. Tu, che durante la guerra di Troia hai provato ad avvertire e sei stata cacciata perché pazza, hai ancora il coraggio di chiedere a noi come si fa ad essere così ciechi. Tu, costretta a sopportare da sola un insostenibile dolore, quello di vedere la propria casa bruciare, i propri famigliari uccisi, fiotti di sangue nero che nutrono la tua terra. Ti aggiravi, profetessa, in un mondo di ciechi sconvolto da una guerra. Ma noi, siamo ancora così ciechi? Dovremmo interrogarci, chiederci come si fa a rimanere inerti davanti alle fiamme, quelle di oggi, che bruciano la nostra terra proprio come il cavallo di Odisseo che spargeva le fiamme a Troia. Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca, le cui membra martoriate sono state gettate da una torre, ci ricordi l’innocenza dei bambini, vittime delle guerre dell’oggi. Ecuba, Andromaca, siete esempio delle tante donne abbandonate, costrette a lasciar partire i propri cari, vedendoli andarsene o sparire, con la consapevolezza che probabilmente non li rivedrete mai più. Medea, ci rivolgiamo a te, alla migrante del passato, accolta e poi abbandonata dalla stessa città. Continueremo a fare morire in mare quelli di cui non abbiamo bisogno e a salvare solo chi consideriamo più importante? Continueremo a sentirci autorizzati a scegliere chi può vivere e chi deve morire? Siete tutti esempio di una società, quella umana, che continua a inseguire delle guerre di potere che non portano altro che sofferenza e miseria. Alla fine, la condanna della stirpe di Edipo è la condanna dell’umanità tutta, destinata ad una continua guerra contro se stessa. Edipo, fin dall’inizio, si pone come obiettivo quello della ιστορία, una ricerca integra e razionale che ha come fine ultimo la conoscenza, la verità. Ma il protagonista, insieme allo spettatore, scopre in fieri che il triste destino dell’uomo che indaga e che conosce è quello di un’esistenza sofferta e tormentata. Nel finale riesce a raggiungere il suo obiettivo, apprendendo però che, come già rivelato dall’indovino Tiresia, con la conoscenza si deve sostenere anche un dolore straziante, che costringe Edipo, nella tragedia delineato come il personaggio capace di vedere più di tutti, a privarsi proprio di questa “vista” ormai insostenibile. Insomma, il male che prova in seguito alla sua ostinata indagine lo costringe ad accecarsi. Dunque, Cassandra, credi che la nostra cecità possa derivare dal fatto che non sopportiamo il male? Non riusciamo più a guardare il dolore? Cosa ce ne facciamo del dolore degli altri, di quello che vediamo oggi, tale a quello rappresentato nelle tragedie di secoli fa? Lo acquisiamo e ne facciamo un atto di cambiamento o lasciamo che non oltrepassi una soglia, quella della responsabilità, provando una compassione deresponsabilizzante? Quanto siamo disposti a perdere? Sono tutte domande attuali su cui ci interrogano, ancora oggi, le tragedie greche. Torniamo a casa da teatro e ci accorgiamo che anche noi, nella freneticità del mondo, siamo diventati ciechi. Dunque, cara Cassandra, ti ringraziamo per la domanda: hai creato in noi “lo strappo nel cielo di carta” e ci hai proiettati in modo più vivo nella realtà. Tu, che provieni da un’altra società e da un altro tempo, forse non sei poi così distante da questo Noi.
Autore
Anita Riccardi
Margherita Galeotti