Nel cuore pulsante di un’estate che sa di guerre e solitudine, il gesto estremo di un giovane uomo ci riporta brutalmente alla fragilità umana, alla violenza del dolore muto, all’indifferenza che divora.
In un mondo troppo rumoroso per ascoltare, c’è chi cerca pace nel silenzio più irreversibile.
La corsa disperata di Andrea Russo verso il motore acceso di quell’aereo non è solo un fatto di cronaca: è un monito.
Un sussurro potente che ci chiede di guardare, ascoltare, tendere una mano prima che sia troppo tardi.
Andrea aveva un dolore. Andrea s’è perso. E non può tornare.
Pochi versi, ma sufficienti – per chi ne sa di cantautorato o per chi lo mastica – a far volare il pensiero verso quella canzone-capolavoro di Faber.
Un brano antimilitarista e che parla di diversità; più attuale che mai nell’afoso luglio 2025, in cui troppo spesso si respira aria di guerra, di morte e di violenza; ci si ritrova nelle piazze, nonostante il cemento si e ci sciolga, per non sentirci soli nelle nostre battaglie, per sentirci parte di un tutto che sembra sgretolarsi ma alla fine ce la fa.
Durante un’esibizione a Milano nel ’92, De André descrive questo pezzo come una dedica ai “figli della luna” – così chiamati da Platone in quanto nati né dal Sole (come l’uomo), né dalla Terra (come la donna).
Sono gli androgini del Simposio e, nel discorso che precede l’esibizione, si parla della nuova possibilità di poter essere finalmente, in Europa, sé stessi senza vergognarsene.
Oggi mi sento, in punta di piedi, di parlare di una diversità che però non ha nulla a che fare con la sessualità o il genere.
Della solitudine che troppo spesso si cela dietro la diversità e, ancora una volta, dell’indifferenza: il male dell’umanità e – come disse Gramsci – “ciò su cui non si può contare… la materia bruta che strozza l’intelligenza”, che oggi più che mai vediamo e percepiamo con imponenza in ogni dove.
Andrea, il contadino che raccoglieva violette ai bordi del pozzo, in quel pozzo poi finisce per lanciarsi; non ci cade per sbaglio e non viene risucchiato: si lancia nel pozzo profondo perché ha perso il suo amore e non riesce a gestire il dolore che ne consegue.
Un altro Andrea ha perso la vita pochi giorni fa, l’8 luglio 2025, all’aeroporto di Bergamo.
Anche lui si è lanciato.
Si è lanciato nella turbina del motore sinistro di un aereo diretto a Oviedo, nelle Asturie.
Oviedo mi è sempre parso un nome molto dolce e poetico per una città, forse perché ho visto troppe volte Vicky Cristina Barcelona.
Andrea Russo era un ragazzo di 35 anni di Calcinate, in provincia di Bergamo, e quella mattina era arrivato a Orio a bordo della sua 500 rossa, che aveva lasciato in divieto di sosta davanti a un cancello e dalla quale era sceso prima di iniziare la sua corsa.
Quella corsa che – passando per le porte scorrevoli degli arrivi e per un’uscita di emergenza allarmata – l’avrebbe portato sulla pista, inseguito da poliziotti e addetti ai lavori forse fuori forma, forse spaventati dalla potenza e dai vortici che i motori degli aerei creano, o forse troppo ottimisti per capire che Andrea non stava correndo lì perché aveva perso una scommessa con gli amici.
Andrea quella mattina voleva morire e aveva deciso di farlo in uno dei modi più violenti che esistano.
Ci sono voluti in tutto due minuti dal suo arrivo all’aeroporto all’impatto.
L’aereo non era ancora in completo movimento: stava eseguendo la cosiddetta manovra di pushback, ovvero uscendo dallo slot del parcheggio per dirigersi verso la pista di decollo.
Le eliche non erano alla massima velocità, ma sono state comunque letali; forse il pilota era stato avvisato e, non appena possibile, aveva spento i motori.
Andrea era un ragazzo dolce e dagli occhi buoni; ultimamente si manteneva facendo vari lavori di manutenzione, motivo per cui la sua 500 era sempre piena – anche quel giorno – di materiale di ogni tipo. Voleva mettersi in proprio.
Aveva superato da tempo il durissimo percorso della disintossicazione e le persone a lui vicine sostengono che negli ultimi giorni farneticasse; parlava di malocchio e del suo defunto padre.
Tanti fardelli diversi, tutti difficili per chiunque da affrontare ed elaborare, soprattutto in questo momento storico e sociale, in cui basta un attimo per essere “diversi” e in cui – in base al grado e alla gravità che ci vengono assegnati – il trattamento cambia di gran lunga.
Diverso ma ricco, diverso ma bianco, diverso ma etero, diverso ma uomo, diverso ma pulito, diverso ma felice…
Questo mondo è una giungla in cui è facile perdere la presa mentre si salta come Tarzan da una liana all’altra; anche lui era un diverso, anzi era il diverso. In quella giungla, però, a parte lui c’erano solo animali, e i nemici erano appunto gli uomini.
Ci insegnano fin da piccoli a fidarci e ad affidarci a chi ci tende aperte le braccia, ci dà la mano e poi solo un dito a cui aggrapparci per compiere i primi passi, a chi promette di prenderci se cadiamo o se perdiamo l’equilibrio.
Crescendo, poi, ci si dimentica di quella mano e di quelle braccia aperte, finché non torna in noi il bisogno di essere raccolti e tirati su, di rimparare a camminare da soli.
Guardarsi attorno non solo per trovare parcheggio o per decidere con chi passare la nostra serata bonus.
Guardarsi attorno per cogliere le grida di aiuto, quasi afone, di chi sta per lasciarsi cadere per un’ultima volta.
Siamo annebbiati.
La violenza quotidiana e normalizzata sotto i nostri occhi ci annebbia; la facilità con cui la violenza viene messa in atto e il costante annuire – perché andrà tutto bene e noi stiamo bene – attorno a noi ci annebbia.
L’aeroporto è un posto delicato: pullula in ogni momento di infinite emozioni diverse, alcune sono una combinazione di quelle più forti e non si riescono nemmeno a decifrare.
Ci sono gioia, agitazione, paura di volare o paura di non poter tornare; c’è la tristezza del dover ripartire e ci sono gli ultimi abbracci e gli ultimi baci.
Ci sono le lacrime di gioia e di dolore alla porta scorrevole degli arrivi – magari di un dolore che finalmente diventa tangibile e condivisibile; ci sono quelle alla punta della coda del serpentone che porta alla security e poi alle partenze – partenze per una nuova esperienza o una nuova vita, per un lungo viaggio in Asia o per un breve viaggio di lavoro dal quale dipende la propria carriera.
Le sensazioni sono tante e nessuno ne è privo, dentro agli aeroporti.
Si sale poi sull’aereo e ci si incolonna nel corridoio; c’è chi sbuffa e chi si osserva o si sorride; c’è chi si guarda attorno e chi spera di non avere bambini nel raggio di tre metri, e c’è chi pensa già al decollo.
Ci si siede e si allacciano le cinture; la hostess, con la forza di Hulk, fa un segno agli omini minuscoli che sono a terra e sbatte la porta: ci siamo, si parte.
I motori si accendono e vibra un po’ la faccia, come quando si usa lo spazzolino elettrico.
Si osserva fuori dal finestrino il furgone che portava le valigie allontanarsi; le hostess e gli steward si preparano per dare le comunicazioni e per fare la scenetta della cintura, del salvagente, del fischietto e della mascherina.
Si sente un brusio: come ai concerti, tutti tirano fuori i telefoni per filmare e poi pubblicare, ancora prima di capire cosa stia succedendo – la famosa spettacolarizzazione del dolore che opprime e soffoca la dignità, che sembra essere ormai una zecca troppo radicata, talmente tanto che, se si prova a strapparla, la testa rimane dentro e fa infezione.
Attimi di confusione e poi lo steward più esperto e anziano dice alla hostess più giovane di chiudere gli occhi e di non guardare.
Vibra tutto.
Andrea s’è perso.
Autore
Amy Sardei