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C’è una linea sottile, ma fondamentale, tra giustizia e vendetta. E il regime del 41-bis, nato come misura eccezionale per combattere le mafie, oggi rischia di attraversarla. Lo chiamano carcere duro. Ma “duro” è un eufemismo. È un regime di isolamento estremo, che priva il detenuto di contatti umani, affetti, stimoli culturali. Si può leggere solo ciò che viene autorizzato, parlare solo con avvocati e familiari per pochi minuti al mese, senza contatto fisico, sotto stretta sorveglianza. È una pena nella pena, pensata per impedire che i boss mafiosi continuassero a impartire ordini dal carcere. E, in quel contesto, aveva una sua logica emergenziale.
Ma oggi, chi è al 41-bis non è solo il capo di una famiglia di ‘ndrangheta o un padrino di Cosa Nostra. Tra i 728 detenuti sottoposti a questo regime ci sono persone come Alfredo Cospito, anarchico insurrezionalista, o Nadia Desdemona Lioce, ex militante delle cosiddette “Nuove Brigate Rosse”. Due figure che certo hanno compiuto atti gravi, con una forte connotazione ideologica, ma che non fanno parte – e questo è il punto – di organizzazioni attualmente operative. E allora sorge una domanda: cosa si sta punendo con il 41-bis, in questi casi? Il reato, o l’idea?
Prendiamo il caso Cospito. Condannato per aver gambizzato un dirigente Ansaldo e per aver collocato due ordigni esplosivi davanti a una scuola allievi carabinieri (che non esplosero), è finito al 41-bis nel 2022. Il motivo? Secondo il Ministero, anche dal carcere avrebbe continuato a diffondere testi e idee che potevano “ispirare” altri anarchici. Non ordini, non piani criminali. Testi, scritti, opinioni. Di fronte a questa decisione, Cospito ha iniziato uno sciopero della fame durato oltre 100 giorni, arrivando a perdere più di 50 chili. Le sue condizioni erano talmente gravi che perfino Amnesty International è intervenuta, definendo il trattamento subito come “crudele, inumano e degradante”. La sua detenzione ha sollevato un’ondata di proteste in tutta Europa. Ma nonostante la pressione, le richieste di revoca del regime carcerario sono state respinte. Lo Stato ha risposto che Cospito “comunica con l’esterno” e “può ancora influenzare altri”. Ma stiamo parlando di un uomo solo, senza alcuna struttura organizzativa, senza un’organizzazione alle spalle, senza “cellule” né piani strategici. Solo scritti, dichiarazioni, riflessioni. E allora di nuovo: il pericolo dov’è?
E ancora, il caso di Nadia Desdemona Lioce. Militante delle cosiddette Nuove Brigate Rosse, fu arrestata nel 2003 dopo uno scontro a fuoco in treno. Fu condannata per omicidi politici e per far parte di un’associazione sovversiva. Ma da allora sono passati oltre vent’anni. Le “Nuove BR” non esistono più, né nella pratica né nella teoria: l’ultima azione rivendicata risale al 2006, i componenti principali arrestati o condannati. Nessuna rete reale, nessun comando attivo. In teoria, nessun vero pericolo. Eppure Lioce è ancora sottoposta al 41-bis. Perché? Quale rete potrebbe mai dirigere oggi, dopo oltre due decenni di isolamento, senza alcun contatto con l’esterno e con l’organizzazione disciolta? L’impressione – difficile da scacciare – è che in questo caso il 41-bis non serva a prevenire un pericolo reale, ma a infliggere una punizione esemplare. Per il passato. Per quello che rappresenta.
E proprio in questo stesso solco si inserisce la vicenda tragica di Diana Blefari Melazzi, anche lei coinvolta nelle Nuove Brigate Rosse e condannata per il suo ruolo nell’omicidio di Marco Biagi. Dopo l’arresto, viene sottoposta al 41-bis, malgrado le sue condizioni psichiche instabili e i disturbi diagnosticati dai periti. Isolata, privata di stimoli, attraversa un progressivo crollo psicologico. Inizia uno sciopero della fame, si chiude in un silenzio assoluto, fino al suicidio nel carcere di Rebibbia, il 31 ottobre 2009. Una morte annunciata, resa possibile dall’applicazione rigida e cieca di un regime punitivo che in quel caso, più che tutelare la sicurezza collettiva, ha prodotto una frattura irreversibile nella dignità della persona. Una frattura che, ancora oggi, nessuno ha voluto davvero discutere.
La Corte costituzionale ha affermato chiaramente che il 41-bis, pur giustificato da ragioni di ordine pubblico, rischia di sfociare in trattamenti “disumani e degradanti”. Ma sembra che questo avvertimento venga messo tra parentesi quando si ha a che fare con figure radicali, ideologicamente scomode, magari violente, ma non mafiose. E il punto è proprio questo: il 41-bis nasce per interrompere i legami tra un boss mafioso e la sua organizzazione criminale. Per impedire, per esempio, che Totò Riina continui a dare ordini da dietro le sbarre. Ma Cospito non è Riina. Lioce non è Provenzano. Blefari Melazzi non era Messina Denaro. Nessuno dei tre ha una struttura alle spalle. E allora perché mantenerli nel carcere duro?
È legittimo privare qualcuno della dignità umana – e della possibilità di reinserirsi – solo perché si teme ciò che pensa, non ciò che fa? In democrazia, la giustizia deve punire i fatti, non le opinioni. Anche le opinioni radicali. Anche quelle violente. Anche quelle inaccettabili. Il rischio, altrimenti, è che il 41-bis diventi non uno strumento di lotta alla criminalità organizzata mafiosa, ma un meccanismo di vendetta istituzionalizzata contro chi ha alzato la testa, ha urlato contro lo Stato, ha espresso dissenso in modo estremo.
Chi parla di questi casi spesso viene accusato di difendere i terroristi, o di sminuire i reati. Non è così. Cospito ha commesso reati, e li deve scontare. Lioce pure. Blefari Melazzi anche. Nessuno chiede l’impunità. Ma ogni pena, anche la più severa, deve rispettare la dignità umana. Deve avere un limite. Deve avere un senso. Il 41-bis, così come è oggi, ha perso quel senso.
Il carcere dovrebbe essere, secondo la nostra Costituzione, anche rieducazione. Dovrebbe offrire – in teoria – un futuro possibile, una via d’uscita. Il 41-bis chiude ogni porta. È una cella nella cella. Un oblio programmato. E quando viene applicato a chi non ha più nessuno con cui comunicare, a chi non può più “comandare” nulla, a chi non ha un clan né una rete, allora cessa di essere una misura di prevenzione e diventa tortura. Legale, ma pur sempre tortura.
Parlare con chi non ha più un’organizzazione non è un pericolo. È solo un diritto. Tenere al 41-bis chi non può comunicare nulla, perché nulla c’è più da comunicare, non è sicurezza. È vendetta. E uno Stato che si vendica, è uno Stato più arrabbiato che sicuro, più vendicativo che giusto.
Autore
Vittorio Scaffardi
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