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In quei giorni R. Moser, per far fronte agli acuti della solitudine, si era messo a giocare con le fatalità. E ci aveva preso anche gusto, quel bastardo. Una volta aveva passato tutta la sera a dire che non avrebbe più accarezzato le belle cosce della moglie di Esway. Tutti sapevano che non era mai accaduto, e che, se fosse riuscito anche solo a sfiorarle, la santa donna gli avrebbe di certo avvelenato una delle mille colazioni che gli preparava quando Moser andava a trovare Esway nella sua bettola. Ma ad Esway non piacevano certe idee, e per poco non aveva alzato il coltello per farsi intendere meglio.
Così giocava sul misero bordo della vita, quel Moser, fino a maggio di quest’anno, quando accadde un fatto che solo qualche settimana dopo sarei riuscito a comprendere.
Era l’ora dei licantropi, e all’Inamorata Club i neri di El Dorado suonavano jazz ermetico con i tamburi e i sonagli maledetti degli indiani morti. Tutto taceva nel bordello di quel dannato casino. Eravamo seduti io, Lester Rizzo e R. Moser accanto al palco, sotto una lampada rosso postribolo. Moser non sembrava lo stesso del giorno prima. Mi ricordo che aveva lo sguardo perso, quello lì; non era presente.
Senza preamboli, senza niente, ci disturba così, ad un tratto, all’inizio di una discussione sui massimi sistemi: la coppia davanti, una bella biondona a cui un vecchio orribile e senza denti sembrava succhiasse dal collo la vita.
“Scusate,” disse quasi tremando, “ho paura... non ho voglia di parlare tanto… c’è Esway, mi sta seguendo, credo… non lo so. Vi prego, dopo poi torniamo a casa insieme?”
Non era il tono suo. Preoccupati, accettammo. Ma la serata morì in fretta per colpa sua, e uscimmo presto. Che cosa lo spingeva alla paranoia? Mica lo sapevo ancora, cazzo! Sapevo solo che Esway si era allontanato da noi, così, da un giorno all’altro.
Moser crepò qualche settimana dopo. Qui comincia il fottuto motivo di questo racconto, perché io, ad un certo punto, lo sapevo che sarebbe successo qualcosa, e le budella mi bruciano di senso di colpa. Ma quello si era costruito una buccia di bugie che poi mi ero stancato di grattare via.
Mi spiego. Mentre tornavamo a casa sua, avevo già percepito che uno, dietro di noi, lontano, ci seguiva. Ma quando mi ero voltato, non c’era nessuno. Poi, due giorni dopo, sorpresi Esway che camminava attorno alla casa di Moser. Non mi feci vedere. Sapevo che aveva detto a Buck, proprietario di Buck Alimentari e Armeria, che era andato in Florida per una settimana.
Cominciai a cercare il mio amico. Ero nervoso, frenetico. Ovunque andassi, era andato ovunque, ma lì non c’era. Moltissimi avevano creduto alle sue balle da bastardo: i mormoni credevano fosse fuggito con una banda di puttane nere, le puttane nere che si trovasse in qualche paese del sud, e i paesi del sud che fosse finito a mungere vacche in qualche fastidiosa comunità mormona.
Alla fine mi ero rotto le palle. Non si trovava mai. Non avevo tutta quella pazienza da star dietro a uno che se l’era cercata, che diamine!
Lo trovarono disteso, nascosto nel suo armadio, morto di fame. Si era infilato lì il giorno dopo il nostro ultimo incontro, e non era più uscito.
Autore
Emanuele Poli