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(di Prince singh)
Vagano corpi magri e adolescenti
consumati dal ciglio della strada
che illude loro con sogni da abbienti.
Uno, mutilato, si trascina e guada
la gran fiumana di risciò impazienti.
Qua crescono guerrieri e senza spada
lottano con carni e non sentimenti,
perché è il ricco che rima la rugiada.
Madre mia, non solita a tali orrori,
patisci gemendo e volgendo il capo?
È per la tua gente che sei accorata.
La miseria ne evidenzia i colori.
Patisci gemendo e volgendo il capo?
Lascia la tua India così desolata,
la miseria ne evidenzia i colori.
“Il Mio Poeta Indiano”, pubblicato in edizione limitata questo maggio, è il titolo della mia prima opera. Ho scelto di raccogliere le mie poesie e pensieri che ho scritto negli ultimi otto anni, a partire dall’età di 17 anni, in questa silloge.
Tutto iniziò quando, studiando l’Orlando Furioso di Ariosto, il mio prof. di italiano e latino del liceo, infastidito da come nella poesia i componimenti in ottava venissero sottovalutati, ce ne fece scrivere una… otto endecasillabi con schema delle rime ab, ab, ab, cc.
Io scrissi questo:
Nel gelo. Lei mi illuminava il viso.
Luce Argentina nel buio blu cromato Osservavo
il suo volto pallido e inciso mentre la
offuscano col freddo fiato. Ora è al mio
fianco, riflette il suo sorriso nell'acqua piovana
del dì passato. Le rivolgo parola,
arrossisce, il cielo la vela, mi
indispettisce.
Da lì, il Professor Corsi mi coniò il nome di ‘il mio poeta indiano’.
Se siete qui a leggermi in questo momento è perché, oltre a parlarvi della mia silloge, vi racconterò un po’ dei miei di poeti indiani.
La prima è una donna, rivoluzionaria nella sua epoca. Meera Bhai, poetessa mistica.
Un tema della sua poesia è l’amore per il divino, il dio Krishna. Parla dell’arte del simran. La meditazione attraverso le ripetizioni di mantra e consapevolezza del proprio respiro.
La più celebre poesia di Meera, famosissima per essere stata cantata dal cantante pakistano Nusrat Fateh Ali Khan, è ‘Sanson ki mala’ (Il rosario del fiato).
“Sanson ki mala pe simroon main pee ka naam”
(Meera Bhai)
Traduzione:
“Sul rosario del fiato, medito il nome dell’amato”
Dopo Meera Bhai, vi è il primo poeta a scrivere in lingua punjabi - mia lingua natale - di nome Sheikh Fareed. Voglio farvi leggere questo verso:
“E doye naina mat chooho peer dekhan ki aas”
(Guru Granth Sahib, pagina 1382)
Traduzione:
“O corvo, non toccare questi miei occhi,
ho ancora la speranza di vedere il mio amato”.
Viene descritto un evento storico o una metafora che si riferisce allo stato vairagi (austerità devozionale) di Sheikh Fareed, conosciuto anche come Baba Fareed.
La storia dice che un corvo stava beccando il corpo del poeta. Fareed Ji chiede al rapace di beccare qualsiasi parte del suo corpo, ma di lasciare gli occhi; perché sta ancora aspettando di avere la visione del suo padrone, la visione del ‘peer’, il divino.
L'altro modo di guardare a questo incidente è vedere la mente come il corvo, più specificamente cinque vizi: kaam (lussuria), krodh (rabbia), lobh (avidità), moh (attaccamento) e hankaar (ego), che crea un'illusione e ostacola una visione chiara della realtà, la verità.
Il racconto e i versi associati a Sheikh Fareed riflettono profondi strati di significato spirituale e metaforico, radicati negli insegnamenti Sikh e nel misticismo. L'incidente del corvo che becca il suo corpo è ricco di simbolismo e offre lezioni a coloro che percorrono un cammino spirituale.
“O Fareed, il corpo è consumato e il corvo (mente) ha divorato i suoi palmi, ma ancora non si rivolge a Dio. Guarda lo stato di questo essere”.
-Questo verso riflette la tendenza umana ad aggrapparsi alle distrazioni mondane anche quando la vita sta svanendo. Sottolinea l'importanza di rivolgersi a Dio prima che sia troppo tardi.
“Anche se il corvo (mente) avesse divorato tutto il mio corpo, gli chiederei di lasciare intatti i miei occhi (la capacità di vedere il bene), perché ho ancora la speranza di vedere il mio Amato.”
-Qui, gli occhi simboleggiano la capacità spirituale di vedere la verità e la bellezza divina. Questo verso esprime la speranza e il desiderio incessante di un'anima devota di connettersi al divino, nonostante la sofferenza o il declino fisico.
In entrambe le interpretazioni, ci sentiamo ispirati a essere vairagi, coltivando un profondo distacco dalle illusioni mondane per avvicinarci alla verità eterna.
La prossima poesia si intitola Taj Mahal:
(…) Questo giardino di rovi,
la riva dello Yamuna, questo palazzo;
i portali finemente scolpiti,
gli archi e le nicchie.
L’opera di uno Shah,
che avvalendosi della ricchezza,
ha deriso il nostro stesso amore di noi miseri.
Dunque, amore mio, incontriamoci altrove.
(Sahir Ludhianvi)
Il poeta Sahir Ludhianvi, in questi versi, racconta alla sua amata come uno Scià, un sovrano, nella sua ostentazione del denaro sia riuscito a rendere come simbolo dell’amore un palazzo, mentre ha deriso l’amore di ‘noi’ poveri e persone misere, di noi poeti. È interessante mettere a confronto Ludhianvi con Ugo Foscolo nei Sepolcri.
Leggiamo infatti:
Ma ove dorme il furor d’inclite gesta
e sien ministri al vivere civile
l’opulenza e il tremore, inutil pompa
e inaugurate immagini dell’Orco,
sorgon cippi e marmorei monumenti.
(De Sepolcri, Ugo Foscolo ; vv. 137-141)
Ma dove dorme il furore delle grandi gesta e sono guide del vivere civile l’opulenza, cioè la ricchezza, il tremore, una celebrazione ostentata e malaugurate immagini della morte, sorgono colonne e marmorei monumenti. Questo è quello che voleva dire anche Sahir Ludhianvi. Si critica una società in cui non si onora la virtù attraverso la memoria dei defunti con simboli vuoti e sfarzo inutile. Una denuncia all’ipocrisia di monumenti sontuosi in un contesto dove manca spirito civico e idealismo. “Amore mio, incontriamoci altrove” dice Ludhianvi, perché questo non è il posto dell’amore, dove il marmo dura più della carta e l’amore di un uomo ricco vince su quello degli altri.
Ludhianvi era, infatti, noto per le sue poesie anticonformiste e sulla lotta dei diritti umani.
Tu non diverrai né hindu né musulmano,
Sei figlio di un umano, diventerai un essere umano.
È bello che tu non abbia ancora un nome,
Non hai nulla a che fare con alcuna religione.
La conoscenza che ha diviso l’umanità,
Non ricade su di te come un’accusa.
Diventerai il simbolo di un’epoca cambiata,
Sei figlio di un umano, diventerai un essere umano.
Tu non diverrai né hindu né musulmano,
Sei figlio di un umano, diventerai un essere umano.
Il Creatore ha fatto ogni uomo un essere umano,
Ma siamo stati noi a farlo hindu o musulmano.
(Sahir Ludhianvi)
Per continuare con lo stesso filo conduttore e argomento, vi presento uno dei poeti più semplici e potenti dell’India moderna.
“Ghar se masjid hai bahut door, chalo yoon kar lein
kisi rote hue bacche ko hansaya jaaye”
(Nida Fazli)
Traduzione:
“È lontana la moschea da casa, facciamo, allora, si
che un bambino che piange rida”
Questi versi fanno parte di una ghazal di Nida Fazli, si cattura l’umanità profonda e la sensibilità emotiva della sua scrittura, specialmente alla luce dei tragici eventi dei moti di Bombay del 1992. Le riflessioni poetiche di Fazli sul dolore, la resilienza e l’importanza di ricostruire la fiducia in una società frammentata risuonano fortemente con i temi dell’armonia comunitaria e della compassione.
La descrizione di una città così indifferente da non offrire conforto ai sofferenti rivela una realtà cruda e commovente dell’alienazione urbana. La conclusione di Fazli, che dà priorità al sorriso di un bambino che piange rispetto alla preghiera rituale, evidenzia l’essenza della spiritualità: servire l’umanità. Questo messaggio potente trasmette l’idea che gli atti di gentilezza e compassione siano la forma più alta di devozione, al di là dei rituali religiosi.
“Kisi titli ko na phulon se udaya jaaye”.
“Che nessuna farfalla venga fatta volare via dai fiori”.
(Nida Fazli)
La sua metafora dei fiori e delle farfalle sottolinea l’equilibrio delicato della convivenza, ricordandoci che, proprio come un giardino perde il suo fascino senza le farfalle, una città perde la sua anima quando i suoi abitanti diversi vengono sradicati o espulsi.
Il ghazal di Fazli non è solo un lamento per una città lacerata dalla violenza, ma anche un invito a ricostruire, riconciliarsi e coltivare la compassione. È un promemoria senza tempo sull’importanza dell’umanità al di sopra dell’odio.
Sono questi, dunque, alcuni dei miei cari poeti indiani.
‘Il Mio Poeta Indiano’ è una raccolta poetica che nasce dal mio trascorso da giovane della terza cultura, cresciuto tra mondi diversi e alla costante ricerca di me stesso. In questi versi si intrecciano pensieri, addii a persone care e interrogativi sull’essenza del divino, visti con gli occhi di chi non crede ma sa riconoscere la sacralità dell’esistenza. Le poesie sono composte in italiano, hindi, punjabi e inglese, lingue che rispecchiano il mio mosaico identitario, e l’assenza deliberata di punteggiatura nei testi in lingua indiana è un omaggio alla forma autentica di questi alfabeti.
Autore
Prince Singh Pundir