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Il 14 febbraio si celebra San Valentino, la festa degli innamorati, e 81 anni fa oggi in Svezia nasceva Ronnie. Era un bimbo biondo, slanciato in altezza e nelle vene già gli vibrava l’adrenalina delle corse.
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Ronnie e Barbro si erano conosciuti nel 1969 a Örebro, città natale dello svedese, in una delle tante discoteche assalite dalla febbre giovanile di fine degli anni ’60, quando da lì a poco gli Abba avrebbero fatto la loro comparsa nella musica internazionale. Entrambi avevano superato da poco i vent’anni, e il loro incontro aveva generato un legame profondo tra le loro anime nordiche, corazzate per proteggere dalle insidie esterne l’estrema sensibilità che contenevano. L’amore tra quei due brillava come il cielo afflitto dall’aurora boreale scandinava, meraviglioso ed estremamente raro da trovare con un’intensità simile alla loro.
Ai tempi era solito per le fidanzate o mogli dei piloti svolgere il ruolo di cronometriste affiancando quelli ufficiali, in caso di eventuali contestazioni o conti che non tornavano sui lap time. Barbro di certo non poteva mancare tra le fila della squadra di Ronnie, come fedele scudiera e spalla di quell’uomo che avrebbe inseguito fino in capo alla luna. I due innamorati, sballottati dalla vita del Circus, trovarono una casa nei pressi dell’aeroporto londinese di Heathrow, per conguagliare gli impegni in pista alla vita privata, riuscendo a ritagliarsi dei momenti per loro. La loro storia procedeva di soli alti, erano una coppia amatissima dalla Formula 1, e da li a poco, solamente 6 anni dopo il loro primo incontro, decisero di sposarsi nel 1975, anno in cui nacque anche la piccola Nina, frutto della loro unione e del loro amore.
La scelta del nome non era assolutamente casuale, di fatto fu scelto in onore Nina Rindt, cara amica di Barbo e rimasta vedova di Jochen, campione del mondo, tragicamente morto a Monza cinque anni prima. Le due donne avevano legato in fretta, tra i muretti dei box con i cronometri in mano e portando avanti la loro più grande passione, la moda.
Ronnie sembrava vivere in un sogno, una famiglia splendida e un lavoro che amava, che gli dava la possibilità di girare il mondo e di sfogare la sua irrefrenabile voglia di sfidare il vento e sbriciolare l’asfalto. Purtroppo, la carriera dello svedese non viveva con la stessa pace di cui si nutriva nel privato; non c’erano dubbi che fosse un fenomeno, ma a causa di scelte sbagliate e di scarsa attenzione per l’immagine e gli sponsor, non ebbe mai modo di lottare concretamente per il titolo più ambito da qualsiasi pilota: quello di campione del mondo.
Il 1978 sembrava potesse essere un anno propizio, almeno per lottare per le vittorie delle singole gare, col suo ritorno in Lotus ad affiancare Mario Andretti, prima guida assoluta del team, favorito per il titolo e soprattutto pupillo di Colin Chapman, fondatore della scuderia di Hethel, ai tempi la più vincente di sempre. La firma del contratto avvenne dopo settimane di trattative, tra postille, correzioni e cifre; la clausola più importante era una, chiara e delineata, Ronnie sarebbe stato secondo pilota, e su questo il capo supremo non transigeva.
La stagione fu trionfante per la Lotus, una doppietta dopo l’altra, un dominio totale sia sportivo che politico ed economico nel Circus. A tre gare dal termine la situazione in classifica era scandita: Andretti assoluto dominatore, Peterson a 12 lunghezze di distanza e Niki Lauda escluso matematicamente dalla lotta per l’iride. La Formula 1 tornava in Italia nella parte finale della stagione, a Monza, nel tempio della velocità, circuito amato da Mario e da Ronnie, come se fosse una seconda casa. Vincere lì era sicuramente un sogno per la stragrande maggioranza dei piloti; un circuito in cui si toccavano velocità di punta estreme, in cui le varianti sottoponevano una pressione indicibile sulle gomme e in cui i cordoli erano pronti a tradirti, facendoti sbalzare fuori pista.
Ronnie desiderava vincere, Andretti poteva essere coronato campione del mondo. Una sfida quasi “fratricida”, con i riflettori ovviamente puntati sull’italo-americano, che oltre a godere della stima del team, correva nella pista di casa.
Il giorno della gara nell’aria c’era qualcosa di strano, una densità insolita condita dal tipico umido della Brianza. Ronnie aveva avuto problemi di affidabilità durante tutto il weekend, qualificandosi di fatto solo quinto, mentre il compagno partiva in pole position; ad aggiungere ulteriore difficoltà al suo appuntamento monzese fu un’uscita di pista prima della gara, nei giri di schieramento. Lo svedese stava vedendo sempre di più il suo sogno svanire, anche se dentro di sé sapeva che non avrebbe potuto lottare anche se ne avesse avuto l’occasione. Memore di ciò, e degli slogan che ormai invadevano gli spalti e i tifosi di “eterno secondo” o “Always second”, era sconfortato nel suo abitacolo, con tutta la squadra di meccanici intorno a Mario Andretti. Nel suo silenzio riflessivo provava a canalizzare tutta l’energia nelle estremità del suo corpo, dove si concretizzava il risultato del suo talento, nelle mani e nei piedi. Cercava risposte nel suo inconscio mentre provava a diventare un tutt’uno con la sua vettura; doveva trovare la posizione perfetta per non avere fonti di fastidio durante la corsa, per far raggiungere la massima estensione ai legamenti delle gambe e avere la schiena in una posizione consona così da avere una posa slanciata per vedere perfettamente le ruote anteriori e gli specchietti retrovisori.
Era tutto pronto per la partenza, i semafori si sarebbero spenti da lì a breve dopo il loro inesorabile countdown. La concentrazione saliva al massimo, ogni fibra del corpo era pronta a sporcarsi d’olio e i polmoni erano preparati ad accogliere le particelle di benzina che fuoriuscivano dagli scarichi delle auto davanti. In quel limbo precedente al grido dei motori Ronnie entrava in una bolla, nulla avrebbe potuto scalfire la quiete che si costruiva ogni volta che aspettava di premere la frizione e iniziare la danza verso la prima curva.
I semafori si accesero, uno dopo l’altro, frazioni di secondo di immobilità e via! Le monoposto iniziarono a demolire ogni granello di asfalto disponibile, tutte vicine tra loro, un piccolo errore di qualcuno avrebbe portato ad un capitombolo che il più delle volte poteva rivelarsi fatale. La gara di Ronnie insieme ai suoi desideri iridati finirono in curva uno, dove le macchine arrivavano ad imbuto: la McLaren di Hunt aveva colpito la Arrows di Patrese. Ciò portò ad un innesco infernale, la Lotus di Peterson divenne una palla di fuoco che tagliò in due la pista e una delle sue ruote finì per colpire in testa Brambilla.
Ronnie fu assalito da un dolore lancinante, guardò le sue gambe, completamente maciullate dalle lamiere della scocca che prendeva fuoco. Guardò il suo guanto sciolto e fuso con il volante e i getti degli estintori dei Marshall che sputavano schiuma su di lui. Si sentivano a malapena le urla, coperte dallo scoppiettio dell’olio che bruciava. Monza si era trasformata in un deserto di detriti e fiamme. Insieme agli altri piloti fu trasferito d’urgenza all’ospedale Niguarda, dove fu immediatamente operato e dichiarato fuori pericolo.
Ma l’uomo è un essere errante, mai esente per natura dalla piaga degli errori. Nella notte la situazione precipita, la prima crisi respiratoria dà il via ad una corsa contro il tempo per provare a salvare Ronnie. Piccoli grumi di grasso iniziano a coagulare formando un aggregato colloidale di molecole che gli ostruiscono un’arteria. Non ci fu nulla che i medici italiani potessero fare, alle 10:00 del mattino dell’11 settembre 1978, Ronnie Peterson se ne andò per sempre, lasciando la moglie e la figlia Nina.
“Tuo marito è stato ucciso dai medici italiani” fu così che si svegliò Babro quella notte.
Corse all’aeroporto e giunse in Italia quando ormai la notizia era ufficiale. Poche parole, lapidarie, nordiche: “sapevo che sarebbe potuto succedere”. Forte fuori, ma dentro nel completo caos, quella donna ne uscì distrutta. Aveva perso tutto, il suo amore non c’era più, e la cosa che più la distrusse fu il fatto che lei non fosse lì a condividere il dolore di Ronnie, strappato alla vita con una sofferenza infernale dopo una notte di agonia.
Barbro si abbandonò al dolore, precipitando e scivolando sempre di più tra le braccia mostruose dell’alcolismo e degli psicofarmaci. Si era lentamente immersa nell’inferno: quello che Dostoevskij identificava con la sofferenza di non poter più amare. Tra una bottiglia di whisky e un flacone di farmaci non sembrò trovare più via d’uscita, abbandonandosi e lasciando tra le braccia di amici e parenti la piccola Nina, grande vittima di questa terribile storia. Il suo stato continuava a peggiorare, e il fondo del pozzo si allontanava sempre di più dalla superficie del reale, fino a quando in una tragica notte di un freddo dicembre del 1987, Barbro dopo aver assunto un cocktail letale di farmaci e alcolici, si abbandonò nella vasca da bagno, lasciandosi gonfiare i polmoni e perdendosi nei ricordi, eliminando i dolori e togliendosi la vita.
Fu seppellita insieme a Ronnie, l’amore della sua vita. Ogni 14 febbraio, oltre al compleanno dello svedese, possono festeggiare la loro festa, legati per sempre nell’eternità.
La storia di due anime strappate troppo presto alla vita, ma unite nella morte per sempre. Libere di amarsi.
Autore
Giuseppe Serra