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“La scuola Penny Wirton nasce da un sogno: insegnare la lingua italiana ai migranti come se parlare, leggere e scrivere fossero acqua, pane e vino. Senza classi. Senza voti. Senza burocrazie.”
Esiste in Italia una scuola composta da volontari, il cui obiettivo è quello di insegnare l’italiano a chiunque ne abbia bisogno attraverso un peculiare metodo di insegnamento. A presentarla è Piero Arganini, referente della scuola Penny Wirton di Parma.
Partendo dall’inizio, come nasce la scuola Penny Wirton e come è arrivata a Parma?
La scuola nasce nel 2012 a Roma grazie all’iniziativa di Eraldo Affinati e Anna Luce Lenzi. Prendendo spunto dalla Città dei Ragazzi di Roma, dove Affinati insegnava, hanno pensato di iniziare assieme a pochissime persone questa esperienza di insegnamento diretta, che non segue il modello delle classi e che hanno chiamato esperienza uno ad uno. In poco tempo la scuola è cresciuta a Roma e ha cominciato a diffondersi in altre città d’Italia, fino ad arrivare alle 65-70 sedi sparse oggi nel territorio. Per quanto mi riguarda io ho conosciuto Eraldo Affinati nel 2015 e negli anni successivi ho fatto qualche esperienza con lui a Roma. Mi sono spostato poi per due anni a Reggio Emilia, dove era stata aperta una scuola nel 2017 ed in cui sono rimasto fino al 2019, quando avrei voluto cominciare qui a Parma. Il problema principale era la mancanza di spazi adatti all’attività; quindi, ho collaborato per due anni con Sant’Egidio cercando di portare il metodo della scuola Penny Wirton. Successivamente è arrivato il covid e non sono riuscito, pertanto a Parma abbiamo iniziato ufficialmente due anni fa, su mia iniziativa e grazie all’aiuto di un piccolo gruppo di insegnanti di riferimento. In questi due anni la scuola è cresciuta parecchio, appoggiandosi al Centro Interculturale.
La particolarità della scuola sta proprio nel metodo di insegnamento “uno ad uno” e per il fatto di diventare un punto di riferimento importante per chi arriva nella scuola. Penso a persone in difficoltà o a minori non accompagnati che giungono qui. La scuola per loro, dunque, è un luogo importante, non solo per l’apprendimento della lingua, ma per stabilire relazioni e contatti in un paese nuovo.
Appunto lo stile è quello di insegnare ad uno ad uno, in piccoli gruppi, segnare solamente le presenze e non le assenze ed accettare le iscrizioni in ogni momento dell’anno. Quindi sì, c’è molta accoglienza, connessione e confronto con le persone che arrivano. Ognuno è diverso, ognuno porta una storia, una provenienza diversa: culturale, sociale ed etnica, se così si può dire. Per questi motivi il fatto di non seguire un metodo standard, cercando di farlo andare bene per tutti, ma personalizzare l’insegnamento, è una ricchezza. Infatti, il rapporto tra volontari e studenti è tutto basato sulla conoscenza e sulla fiducia. Quest’ultimo punto è molto importante soprattutto per quelle persone giovani che hanno avuto delle situazioni critiche nei loro spostamenti e non solo, anche nell’accoglienza, che non sempre è adatta a minorenni. Dunque, anche il fatto di avere un luogo e persone di riferimento è importante per loro. Chiaramente non siamo solo una scuola per minorenni, accogliamo tutti, indipendentemente dall’età. Non mandiamo via nessuno, ecco.
Collegandomi a questo, si può dire che la realtà di cui si fa esperienza qui è decisamente diversa da quella che si può trovare al di fuori. Se all’interno della scuola si respira una logica di connessione, di scambio reciproco, nel resto della società prevale ancora una retorica del “noi e loro” e trova ancora seguito un forte pregiudizio.
Esatto, qui non vi è pregiudizio ma uno scatto di accoglienza. Dobbiamo sempre considerare che queste persone sono in una fase complicata e difficile, il fatto di accogliere diventa allora una priorità, un’esigenza, quasi una missione per la scuola. Certo c’è la lingua italiana, ma questa passa attraverso un modello di accoglienza. Non mi viene assolutamente da utilizzare “integrazione” come termine, è tutto confronto. Il nostro obiettivo non è quello di portarli dalla nostra parte, anche da un punto di vista culturale, il rapporto tra volontari e studenti è fatto infatti di scambio reciproco. Ed è un aspetto importante questo da segnalare, anche per chi volesse venire come volontario, cioè il fatto che non è un’esperienza unidirezionale,
vi è arricchimento da entrambe le parti.
Quello che fate è molto importante dal momento che uno dei requisiti fondamentali per ottenere la cittadinanza italiana è la conoscenza della lingua italiana, per un livello non inferiore al B1. Voi siete una scuola composta da volontari, ma esistono sul territorio anche altri organi che svolgono questa funzione educativa?
Ufficialmente c’è il CPIA, il centro per l’istruzione provinciale degli adulti, che si occupa proprio delle persone adulte, prevalentemente straniere, anche se nel passato andavano anche molti italiani. Loro hanno il dovere di permettere alle persone straniere di fare un percorso sulla lingua italiana e non solo. Il problema è che questo centro pur essendo abbastanza grande non riesce ad accogliere tutti e soprattutto non persone completamente in regola con i documenti. Questa è una grande difficoltà, molte persone allora si rivolgono ad altri percorsi. Nel caso di Parma ci sono associazioni come il CIAC o Sant’Egidio che organizzano questi corsi su base volontaria. Anche noi siamo molto vicini al CIAC e continuerà questa collaborazione, però non possiamo rilasciare attestati di livello, ma solo di frequenza. L’unico organo che per ora è preposto a fare gli esami è proprio il CPIA, speriamo in futuro attraverso il CIAC di poter essere autorizzati anche noi in questo percorso.
A proposito di cittadinanza, qualche settimana fa si sono svolti i referendum abrogativi ed il quinto quesito riguardava proprio questa. Se avesse vinto il Sì, i tempi per ottenere la cittadinanza si sarebbero dimezzati: 5 anni di permanenza in Italia anziché 10. Certo i requisiti per ottenerla sarebbero rimasti gli stessi, ma sicuramente i tempi più brevi avrebbero un minimo agevolato l’iter.
Purtroppo il referendum è andato male. Sì, i requisiti per ottenerla sarebbero stati sempre gli stessi, ma gli anni formalmente necessari per richiederla 5, a fronte degli attuali 10. Dico formalmente perché ci sono sempre da considerare anche i 2-3 anni in più di attesa dovuti alla burocrazia. Sarebbe stato utile, però ho capito che noi italiani in maggioranza non siamo ancora sensibili, o meglio, preparati al fatto che non esiste una divisione, un “noi e loro”. Siamo nello stesso territorio e bisogna confrontarsi sulla base di ciò che ci accomuna e non secondo le differenze, e inoltre è necessario anche pensare alle tante opportunità che queste persone possono dare alla nostra nazione e in generale all’Europa.
Sì, questa impreparazione è evidente. Basta leggere alcuni slogan o aprire i social, colmi di commenti come: “No alla cittadinanza facile” o “No alla cittadinanza per tutti”. Tutto questo riporta alla mentalità diffusa di separazione e divisione di cui parlavamo prima.
Se vuoi posso risponderti con una battuta, un po’ forse una provocazione che può misurare questa mentalità. Ci sono persone che non ottengono la cittadinanza perché non hanno avuto continuità nel reddito per 5 anni, reddito minimo che è necessario avere come requisito. Seguendo questo ragionamento allora ad uno dei miei figli andrebbe ritirata sicuramente la cittadinanza, dal momento che è maggiorenne e non ha un reddito continuativo. Chiaro, questo non potrebbe accadere, ciò però fa capire come prevale questa logica di differenziazione. Perché bisogna pretendere da una persona che viene da fuori cose che poi non ci sono per noi italiani? Le stesse cose dovrebbero valere un po’ per tutti senza differenze, no? Soprattutto pensando alle difficoltà che ci sono nel mondo del lavoro oggi, perché questo resta un requisito indispensabile per la cittadinanza? Altrimenti si dovrebbe utilizzare il sistema del welfare e aiutare chi non ha possibilità, chi non riesce a raggiungere un reddito adeguato.
Autore
Viola Mattioli