«E fu sera e fu mattina» (Gen 1, 5). Così si apre anche questo 5 luglio 2025, quando il vento d’estate solleva la sabbia di Gaza e la porta fino ai mosaici di Gerasa, e lo stesso chiarore incendia le cupole di rame di Teheran. Negli ultimi giorni, mentre le sirene antiaeree hanno squarciato più volte il cielo di Gaza e Tel Aviv, e le ruspe scavavano sotto i calcinacci, le cancellerie di Doha, Il Cairo e Washington hanno serrato i ranghi in una mediazione serrata. Il 5 luglio segna un momento cruciale: Hamas ha espresso una «risposta positiva» a una bozza di tregua di sessanta giorni, mediata dall’Egitto, dal Qatar e dagli Stati Uniti, ora sul tavolo del presidente Donald Trump, rieletto a gennaio 2025 con una piattaforma di politica estera marcatamente filo-israeliana. I mediatori – tra cui il capo della diplomazia egiziana Sameh Shoukry e l’inviato speciale americano David Satterfield – si scambiano nervosamente fogli e correzioni nelle sale ovattate dei loro hotel di Doha e Il Cairo. I punti salienti, confermati da Reuters e dal Wall Street Journal, prevedono il ritiro graduale delle forze israeliane (IDF), il rilascio scaglionato degli ostaggi e l’avvio immediato di negoziati per una pace più ampia e strutturale. Solo «piccole modifiche» sarebbero state chieste da Hamas, come titolano i media vicini alle trattative, con la prudenza tipica di chi cammina sul filo senza rete. Tra queste, richieste di aiuti umanitari più consistenti e regolari, con meno ostacoli burocratici ai convogli internazionali, sono più un’invocazione che una trattativa. Pane, antibiotici, acqua potabile, pannolini, insulina: una preghiera laica che attraversa le macerie da Rafah a Gaza City. Ma chi ha orecchi più allenati – i giornali indipendenti e le ong locali – raccontano un quadro più complesso. Il nodo più spinoso è il controllo dei varchi di Salah al-Din, arteria strategica che attraversa la Striscia come una cicatrice profonda, collegando sud e centro del territorio. Chi controllerà questi punti di passaggio, e se il cessate il fuoco diventerà realtà, sono domande ancora aperte. Hamas chiede con forza garanzie contro una presenza militare permanente israeliana, temendo che le basi israeliane nell’area centrale significherebbero non una tregua, ma un’occupazione mascherata. La presenza delle brigate Nahal Oz – unità d’élite dell’esercito israeliano già dispiegate ai confini più caldi – è vista come una linea rossa. Hamas ricorda la storia di Hebron negli anni Novanta, quando il controllo territoriale fu congelato sotto tutela armata, e teme che quel modello si stia ripetendo nella Striscia. Il linguaggio della diplomazia è oggi quello dei funamboli: ogni parola pesa come piombo, ogni virgola può riaprire le ostilità. Le comunicazioni ufficiali passano al setaccio dei servizi segreti egiziani, qatarioti e americani prima di uscire, e dietro a ogni bozza ci sono emendamenti in codice e compromessi non dichiarati. Frasi come «garanzie di sicurezza per le popolazioni civili» possono significare corridoi umanitari, disarmo parziale delle milizie o solo tregue brevi per seppellire i morti. Intanto, però, la popolazione aspetta gesti concreti: se le ruspe smetteranno di scavare tra le macerie, se gli ospedali da campo potranno arrivare a Khan Yunis, se i bambini potranno tornare a dormire senza il terrore dei droni. Nessuna firma, per ora. Solo mani che tremano su fogli fragili come vetro. Mentre le delegazioni discutono, i numeri dei morti corrono più veloci della pallina di Jannik Sinner. Secondo il ministero della Sanità di Gaza, le vittime dall’inizio del conflitto hanno superato quota 57 000; Al Jazeera e Just Security riportano 42 morti solo all’alba del 5 luglio. L’ONU, tramite l’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), conferma almeno 613 morti tra convogli e punti di distribuzione negli ultimi trenta giorni, definendo questi dati «sottostimati».
Questa mattina, La Gaza Humanitarian Foundation, un consorzio di ONG con supporto europeo e nordamericano, accusa Hamas di fuoco amico in alcuni attacchi, ma testimoni palestinesi indicano tiratori scelti israeliani appostati sulle alture di Zeitoun. A mezzogiorno, nel Libano meridionale, un drone israeliano ha colpito un’auto a Bint Jbeil, causando un morto e due feriti. L’obiettivo era un presunto trafficante di armi affiliato alla Quds Force iraniana o a Hezbollah, considerato responsabile di rifornimenti clandestini di armamenti verso Israele. Hezbollah non ha commentato, ma a Tiro si è levato un coro di dolore e vendetta: «Qassem ya Habib» — “Qassem, nostro amato” — un riferimento affettuoso e devozionale a Qassem Soleimani, il generale iraniano ucciso nel 2020 e ancora simbolo di resistenza sciita nella regione. Nel frattempo, dall’Air Force One, Trump ha denunciato la «mancata apertura» delle centrali nucleari iraniane agli ispettori AIEA, sottolineando il colloquio serrato avuto con il premier Netanyahu appena lunedì scorso. In contemporanea, il Pentagono ha fatto trapelare un dossier che attribuisce ai raid congiunti USA-Israele dello scorso mese il rallentamento del programma atomico di Teheran di almeno uno-due anni, smentendo quindi le notizie diffuse in precedenza dalla CNN secondo cui quei raid non avrebbero danneggiato siti iraniani. Ma la Repubblica Islamica sanguina anche all’interno: a Evin, la prigione più temuta di Teheran, un missile Jericho ha squarciato l’ala sud, uccidendo 71 detenuti. Mai, nemmeno durante le tensioni dell’era dello Scià, la capitale aveva visto un attacco simile all’interno delle sue mura carcerarie. Narges Mohammadi, attivista per i diritti umani, scrive che «uccidere è uccidere» e che nessun patriottismo potrà mai lavare il sangue versato.