Un rumore improvviso, un rumore potente ma lontano. Poi uno scroscio fragoroso d’acqua. Il tetto inizia a gonfiarsi. Qualcosa, nell’ombra della stanza, trema. Potrebbe essere un bicchiere. Subito, il fruscio innumerevole della pioggia gonfia le grondaie, scende lungo il profilo ruvido dei muri, allaga il campo. Potente soffia il vento sui vetri delle finestre. Una luce entra, cade sul muro, e poi scompare.
Mi sono distratto ma stavo pensando a qualcosa, in questo caso, era l’angoscia futura per il mondo del lavoro.
Questo temporale è avvenuto non molto tempo fa – anzi, mi verrebbe da dire ieri notte – ed io ero nel mio letto, sudato fradicio, che mi agitavo senza sosta. Mi giravo e rigiravo come un grosso siluro su una piccola barchetta in legno dispersa, impegnato a lottare, come il pesce poco prima con l'amo che aveva in bocca, contro infinite schiere di pensieri, tetri e orribili, quasi le Malebranche dell’Inferno. Tutti pensieri sul lavoro. Fuori i fulmini, la pioggia, il temporale.
Credo ancora -almeno per me vale- che, nella vita, le paure più profonde s'affacciano con più forza durante la notte, come se la luna avesse davvero il potere di trasformare orribilmente le idee.
Il lavoro, o meglio, la sua assenza o il suo fallimento, non è solo un problema economico: è una crisi identitaria. Quando ci pensi, ti chiedi se vali qualcosa. Certo che vali, ma lì per lì non te lo ricordi e inizi a domandarti: Ma quando, finalmente, lo troverò, un lavoro? Continui a chiederti. E quanto mi daranno? E quanto mi terranno? E se poi mi lasciano a casa senza preavviso? Speriamo non mi diano poco, perché qua, con poco, non si campa. E poi il mutuo, come lo pago? E se mi ammalo? E se vado in burnout? E se mi sfruttano? Se mi umiliano? Se mi sveglio ogni giorno senza più desideri? Che io, un lavoro, se dev’essere questo, non so nemmeno se lo voglio. E se, per vivere, finisco per diventare una versione di me che non riconosco?
Le domande mi si accumulano come i negativi dei rullini nella scatola sotto al letto...
Lei ora la amo, ma non andiamo da nessuna parte senza lavoro.
È il nodo tra affetto e sopravvivenza. In una relazione, l’amore non basta.
Però lì pensavo a lei, e mi sono addormentato.
Poi mi sono svegliato. Ed era il Primo Maggio, ch'è la Festa dei Lavoratori: un giorno nato per celebrare le conquiste ottenute in secoli di lotte, scioperi e rivendicazioni. È stato istituito ufficialmente nel 1891, sospeso durante il fascismo e poi ripristinato nel 1945, rappresenta oggi il simbolo della dignità del lavoro. Non è solo una celebrazione, ma un momento di riflessione sul presente e di lotta per un futuro più equo.
È importante ricordarlo, perché spesso lo viviamo come un giorno di vacanza, dimenticando il suo significato. Ma se il lavoro ci toglie il sonno, come è successo a me quella notte, allora forse è proprio oggi il giorno per parlarne.
Pier Paolo Pasolini, nel saggio La questione morale, scriveva che “Il lavoro è il respiro della dignità. Ma quando manca, quando uccide, allora toglie anche l’anima.” Questa frase mi piace visceralmente. Mi piace come mi piace ogni frase che scrive Pasolini: ha un gusto primitivo, ti fa sentire la carne sotto i denti anche quando non c’è.
Ed è proprio di questo che voglio parlare oggi: della dignità.
La dignità è la condizione di nobiltà morale in cui la persona è posta per le sue qualità, il suo essere umano. È anche il rispetto che per tale condizione le è dovuto – e che deve, a sua volta, a sé stessa. Per questa ragione, va tutelata. Sempre. Specialmente nel lavoro, che non dovrebbe mai essere solo uno scambio di tempo per denaro, ma riconoscimento, appartenenza, costruzione di sé.
Questo è il punto centrale: il lavoro come spazio di identità. Non basta che dia uno stipendio: deve poter permettere alla persona di essere sé stessa, di crescere, di avere un ruolo nella comunità.
Oggi, in Italia, questo, difendere la propria dignità nel lavoro è, per molte fasce, quasi impossibile.La distanza tra l’ideale e la realtà è abissale. Ed è su questo baratro che bisogna fare luce.
La prima tra queste categorie è quella dei giovani.
Secondo i dati ANSA aggiornati ad aprile 2025, la disoccupazione giovanile in Italia è tornata sopra il 22,4%, con punte del 40% nel Mezzogiorno. Un giovane su cinque, dopo anni di studi, è escluso da un mercato che lo considera “inesperto” prima ancora di formarlo. Lo beffa, lo depreda della dignità fomentando con contratti brevi un precariato ormai dilagante. Oggi, un’intera generazione è costretta a scegliere tra l’attesa o l’espatrio, tra la famiglia o il futuro, tra un figlio o una casa. Secondo Eurostat, l’Italia è terzultima in Europa per occupazione degli under 30. Le principali cause? Stage non retribuiti, alternanza scuola-lavoro pericolosa, mancanza di politiche attive. Lo scrivo ancora: mancanza di politiche attive.
L’esperienza comune è quella della frustrazione. Ogni curriculum inviato è un grido nel vuoto. Si cresce con l’idea che studiare serva a migliorarsi, ma ci si scontra con un mondo che ti guarda con indifferenza.
Ecco, se ci penso, questa è un po’ l’epoca dell’“arrangiati”. Hai un computer? Fai da solo. Una volta, sulla tua mano ce n’era spesso un’altra: a tracciare il solco, a usare il tornio, a piantare un albero, a correggere una parola, a preparare un discorso, a portarti in aula. Dove sono finiti i maestri? Gli adulti dove sono finiti? Saranno andati dov’è andato Dio…
Nel frattempo, la tragedia continua. Secondo l’INAIL, nel 2024 si sono registrate 1041 morti sul lavoro. I primi due mesi del 2025 ne contano già 156. Non numeri, persone. Vite che non torneranno. Figli, fratelli, padri. Sogni, desideri, affetti. Spezzati nel silenzio. Un esempio tragico: Lorenzo Parelli, 18 anni, morto durante uno stage in una fabbrica friulana. Colpito da una trave d’acciaio mentre imparava, da solo, un mestiere che avrebbe dovuto essere accompagnato, non improvvisato.
È qui che la parola “dignità” si scontra con la parola “morte”. Perché morire lavorando, nel 2025, è una vergogna. Bisogna imparare in italia a spazzarle via le cose vergognose.
La seconda categoria più colpita – rullo di tamburi tantantantantantan – sono le donne! Anche questa volta vincono il premio.
L’Italia è il penultimo paese dell’UE per occupazione femminile, ferma al 52% (fonte: ANSA, 2025), contro una media europea del 67%. La premier Giorgia Meloni ha lasciato l’unica dichiarazione parzialmente vera della sua carriera quando ha detto: «i tassi di disoccupazione femminile non sono mai stati così alti». Le donne italiane vivono ancora sotto il peso invisibile di un sistema che non riconosce né il lavoro domestico né i carichi di cura. Penalizza la maternità con contratti a termine, dimissioni in bianco e stipendi più bassi del 16% rispetto agli uomini. In quasi tutte le posizioni. In quasi tutti gli ambiti.
Eppure, le donne non si arrendono. Lottano ogni giorno per tenere insieme esistenza e resistenza. E ogni volta che qualcuno dice “è sempre stato così”, non fa che riconfermare un privilegio che non ha mai voluto discutere. La resistenza quotidiana è rivoluzionaria. Ma non dovrebbe essere necessaria. Servirebbe giustizia, non eroismo.
Tutti promettono solidarietà. Tutti parlano di cambiamento. Ma quando la parola si svuota, resta il peso. Il peso dei contratti a termine, degli stipendi insufficienti, degli orari impossibili, delle molestie, dei ricatti. Il peso di Anna: «Vero era il maltrattamento, vera la ribellione, vero l’odio». (Anna è tutte. Anna è ognuna di quelle che hanno resistito a un ambiente che le voleva mute, piegate, obbedienti.)
E l’Europa?
L’Europa ha stanziato per l’Italia circa 200 miliardi di euro tramite il PNRR, una fetta importante dei quali destinata proprio all’occupazione giovanile e femminile. Ma secondo un’inchiesta ANSA del 2025, solo il 12% di quei fondi ha prodotto assunzioni stabili. Troppa burocrazia, poca visione. I bandi non sono pensati per raggiungere i soggetti più deboli. Gli incentivi alle aziende si rivelano spesso temporanei, mal distribuiti, inefficaci.
Non basta stanziare fondi. Serve saperli usare. E soprattutto, volerli usare per cambiare davvero, non per far figurare bene dei bilanci.
Eppure, il programma europeo Youth Guarantee prevedeva un’offerta qualificata di lavoro, tirocinio o formazione entro quattro mesi dalla fine degli studi. Una promessa disattesa. Altre misure, come il Child Guarantee e la Gender Equality Strategy 2020-2025, restano sulla carta, mentre nei quartieri popolari si continua a lavorare in nero e le madri sole restano escluse da qualsiasi tutela.
Il rischio è che l’Europa venga percepita come lontana, tecnica, astratta. Perché non basta inviare risorse: bisogna incarnare un progetto.
Il lavoro resta un tema strutturale, non decorativo. Senza una visione politica che lo metta al centro, ogni euro europeo si disperde. E con lui, le vite delle persone che quei fondi avrebbero dovuto salvare.
Che fare, allora?
Ecco alcune proposte minime per restituire dignità:
Per i giovani: retribuzione obbligatoria per stage e tirocini, revisione dell’alternanza scuola-lavoro con figure formate e monitoraggi reali, introduzione del salario minimo legale.
Per le donne: congedi parentali obbligatori e paritari per entrambi i genitori, sgravi alle aziende che assumono donne con figli, pieno riconoscimento del lavoro di cura nel calcolo pensionistico.
Per tutti: rafforzamento dell’Ispettorato del lavoro, digitalizzazione semplificata dei fondi PNRR, più cooperazione tra comuni e centri per l’impiego, investimenti nel lavoro “buono”, non solo “rapido”.
«Il lavoro nobilita l’uomo» scriveva Giuseppe Mazzini, aggiungendo che «senza lavoro non v’è dignità, non v’è libertà, non v’è Patria.»
Oggi, mentre fuori la pioggia cade, mi rendo conto che questo Primo Maggio non è solo una festa. È un appello. È la voce di chi aspetta, lavora, muore. Di chi sogna, resiste, ama. Di chi cerca la dignità non come privilegio, ma come diritto.
Autore
Alessandro Mainolfi