Io e Benjamin sbarcammo insieme ad altri cento uomini dal primo Havilland Canada Huey per Saigon. Ci siamo conosciuti sopra il Pacifico. Un ragazzo afroamericano come me. La guerra in Vietnam cominciò il primo novembre del 1955, ma per me è cominciata il venti agosto 1964. Ci misero nello stesso accampamento, nello stesso plotone, nella stessa tenda. Ogni giorno, finita l'esercitazione, entravo in camera ancora grondante di sudore e consumavo l'ultimo burst di adrenalina per cantare e ballare le canzoni dei Beatles. Ero riuscito a portare con me il vinile comprato a Savannah. Speravo di trovare un giradischi, perché ero convinto che se Benjamin li avesse ascoltati si sarebbe innamorato del loro sound, e così, forse, anche di me. Allora la notte mi intrufolavo nelle tende degli alti ufficiali e degli altri soldati. Non trovai mai nulla. Di giradischi non c’era traccia. Mi dovevo accontentare della memoria e fare da me. Benjamin mi squadrava con quei suoi occhi felini. Alzava gli occhi al cielo, poi, apriva prontamente uno dei suoi mattoni. Saggi di chissà che cosa. Si congedava rassettandosi gli occhiali sul naso come a voler dire “grazie, ora ho di meglio da fare”. Mi faceva impazzire. Avrei voluto tirargli una sberla. E avrei voluto immortalarlo così per sempre. Nei miei ricordi, Benjamin è delicatamente disteso sulla sua cuccetta, imperturbabile, eterno. Una mattina, il nostro accampamento fu assaltato da un gruppo di Khmer rossi guidati da Viet Cong. Ci costrinsero ad abbandonare la base. L'ufficiale Raymond non fece a tempo a chiamare l'adunata. Ci disperdemmo nella fitta foresta di mangrovie Can Gio. Io e Benjamin ci ritrovammo ancora una volta insieme. Quando fu notte, io e lui dormimmo stretti sotto un riparo di rami fradici. La mattina ci svegliò l'odore di fumo proveniente dalla base militare. “Avranno bruciato anche il mio vinile”, pensai. Dovevamo ricongiungerci con la squadra. Da soli ci avrebbero accerchiati prima del calare del sole. Seguimmo il corso di un fiumiciattolo che si addentrava tra le radici sommerse di mangrovie nere disposte in filari contigui. “Sono stati quì”, constatai. Alcune radici sono state sbucciate come patate. Le folte tendine di foglie chiudevano come una quinta il passaggio verso il cuore della foresta. Al suono di uno sparo affondammo le gambe nella melma salmastra popolata da varani d'acqua e ci mettemmo a correre spostando frasche e liane. Al suono del secondo sparo ci tuffammo completamente in quelle acque fosche. Presi la mano di Benjamin mentre trattenevamo il respiro. “What the heck”, borbottò lui, liberando delle bollicine, ma non si scansò, anzi, mi strinse più forte. Quando ci alzammo, un proiettile gli trapassò il torace da parte a parte. Io caddi a terra. Mi svegliai in un terreno aperto, dove alcuni nostri compagni stavano costruendo una nuova base. “Dov’è Benjamin?”, chiesi al primo cadetto. Riposava su una barella. Non si era ancora svegliato. Aveva il torace nudo avvolto da una fasciatura impregnata di sangue secco. Non feci in tempo ad avvicinarmi a lui che dei nuovi colpi ruppero il silenzio. Dalla foresta sbucarono sempre più velocemente schiere di uomini armati sino ai denti. Raggiunsi il plotone. Caricammo tutti il fucile. Mi parve di udire una melodia familiare provenire dalle ultime file dei Viet Cong. Come una dolce litania, mi prese e mi accompagnò al suolo. Venni trafitto da un pallettone sulla testa e uno in gola. Pensai che sarei morto. Invece, notai la stessa perplessità negli occhi dei miei compagni, e nei sottili occhi allungati dei nemici. Un soldato asiatico si fece avanti e, lasciando cadere il fucile e si mise a sgambettare, piroettare, schioccare le dita a ritmo di una canzone in una lingua che non poteva conoscere. Eppure, cantava.
Oh yeah, I'll tell you something I think you'll understand L'intero mio plotone si gelò, tutti puntarono il fucile contro l'uomo. Un altro Viet Cong si unì alla danza. When I say that something, I wanna hold your hand E poi altri, e altri ancora. Indietreggiavano con passo cadenzato. I miei compagni furono costretti ad abbassare il fucile davanti a un tale teatro dell'assurdo. Dovevo dirlo a Benjamin. Tornai indietro verso le tende, ma trovai il suo letto vuoto. Gridai il suo nome più forte che potevo e a quel punto lo vidi, in mezzo ai due eserciti. I wanna hold your hand! I wanna hold your hand!
Danzava assorto. Le sue braccia e le sue gambe sembravano fluire capeggiate da uno spirito sconosciuto. Mi resi conto che gli altri soldati lo seguivano, entrambe le fazioni. Ormai tutti erano stati contagiati dallo stesso virus. Soldati vietnamiti e soldati americani presi per mano che cantavano insieme formando un lungo trenino.
Oh please, say to me, You'll let me be your man, And please, say to me, You'll let me hold your hand!
I vagoni avanzarono fino a coinvolgere le basi militari vicine. Solo io ne ero escluso, come se fossi l'unico in grado di percepire l’insensatezza di ciò che stava accadendo. Benjamin mi guardava. Mi lanciava occhiate fugaci e se la rideva sotto i baffi. Lo stesso ragazzo che aveva alzato gli occhi al cielo vedendomi danzare, era diventato il capo di uno swing. Quella fu l’ultima volta che lo vidi. Non udì più la sua voce. Non seppi più nulla di lui. Qualche giorno dopo il mio rientro a casa, nel gennaio del 1975, vennero firmati gli Accordi di Parigi. La guerra era finita. La città di Saigon prese il nome di Ho Chi Minh in onore dell'omonimo leader socialista. Sono passati quindici anni da quel giorno. Io ancora ballo per Benjamin. Se chiudo gli occhi lui è sempre lì, disteso a leggere noiosi tomi con i suoi occhiali adagiati sulla sommità del naso. Per quanto riguarda la fine di quello scempio, la seguì in televisione. Mostravano la grande sala della conferenza. Sul tavolo penne e fogli bianchi. Al centro, un modellino di un Bell UH-1 Iroquois detto “il giradischi”.
Autore
Angelica Oddo