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Ieri notte, di ritorno in bicicletta da una piacevole serata, mi godevo le strade che, anche se percorse e ripercorse, sempre tanto mi incuriosiscono. Mi cadde a un certo punto l’occhio su un telaio di bicicletta lasciato a sé stesso e malamente legato ad un palo. Mi incuriosì a tal punto che, fermatomici accanto, lo iniziai ad osservare. Era da uomo, di un bel colore azzurro sporcato dal tempo e in condizioni che parevano cattive ma, in verità, erano più che buone; ciò che mi colpì, però, non fu tanto quel che vedevo, quanto i pensieri che mi suscitò. Il lucchetto, che assicurava la canna al palo, mi sembrò improvvisamente illecito, sbagliato, senza senso e, se subito non riuscì a capire il principio di tale fastidio, dopo un istante passato ad osservare meglio il tutto, lo compresi subito.
Quel lucchetto, infatti, simboleggiava il legame tra la bicicletta ed il proprietario, la volontà di quest’ultimo di preservarla e di riconoscerne il valore, anche se solo un oggetto; tutte cose che poi, guardando alla realtà, non c’erano ma anzi parevano dimenticate, proprio come quella bici.
Questo più di ogni altra cosa mi infastidiva: il pensiero che quella bicicletta fosse abbandonata e che, al contempo, non potesse essere recuperata e valorizzata poiché di proprietà di qualcuno, che fosse destinata a diventare nient’altro che un rifiuto. In quel momento, con sorpresa, non solo capii che il ragionamento valeva pure per le persone, i concetti, gli ideali e tutto quel che mi circondava, ma sentii anche la necessità di cambiare la concezione di proprietà e appartenenza che avevo. Realizzai quanto non basti comprarle, le cose, per considerarle proprie; quanto non basti dire di avere un amico solamente dicendo di essere amici e dire ti amo ad una persona per amarla; quanto non basti desiderarla, la pace, per ottenerla; quanto non basti nascere in Italia per essere italiano e quanto non basti essere eletti per governare.
Capii che quella bicicletta, su cui ero seduto mentre riflettevo e che fino a poco prima mi stava riaccompagnando a casa, non era mia perché me l’avevano data e mi avevano detto “ ora è tua”, ma perché me ne ero preso cura. E fu proprio in questa parola -cura- che trovai la mia soluzione.
I legami che univano me e le mie cose, i miei amici, i miei ideali, le mie idee, non dovevano più essere catene chiuse da un lucchetto, ma fili che, intreccio dopo intreccio, cura dopo cura, diventeranno robuste corde.
Questo pensiero mi suscitò un sentimento di gratificazione che, sebbene inaspettato, accolsi volentieri e, guardando quel telaio abbandonato come si fa con una persona che non si sa quando si rivedrà, mi rimisi in sella alla mia bici a pedalare verso casa. Andavo spedito seguendo meccanicamente la solita strada, nel frattempo mi rigiravo in testa il ragionamento fatto di fronte al telaio e quella bella sensazione provata prima di salutarlo, cercavo di amalgamarli assieme, di impastarli come se fossero degli ingredienti di una ricetta e, proprio poco prima di entrare dal cancello di casa, riuscii ad unirli. Scesi dalla bici e mi avviai verso il garage, m'immaginai una realtà dove quel telaio non era stato abbandonato, ma sistemato, dove ogni cosa godeva di una cura.Sognai un mondo dove non si spreca ma si riutilizza, in cui si dialoga e non si urla l'uno contro l'altro, in cui i paesi sono governati da qualcuno veramente devoto a curarli, in cui i cittadini sono tali poiché si curano di quel che li circonda. Insomma, un bel mondo.
Arrivai al garage, poggiai la mia bici e, per la prima volta, la guardai sorridendo, in un modo totalmente nuovo, come se venisse da un altro mondo.